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Filippo Antonio Cifariello scultore
15 settembre 2018

Nel febbraio 2017, lo storico dell’arte Gaetano Mongelli curava presso il Museo Diocesano l’allestimento di una mostra intitolata “Corrado Giaquinto e Filippo Cifariello. Nuovi inediti e contributi”, nella coincidenza del 250° anniversario dalla morte del pittore e dell’ottantesimo da quella dello scultore. Nel dicembre del medesimo anno, a quell’importante esposizione ha fatto seguito un altro contributo notevole, ai fini di un corretto inquadramento critico dell’artista molfettese. Filippo Antonio Cifariello scultore a ottant’anni dalla morte. Nuove aggiunte di Gaetano Mongelli, edito da “L’Immagine” è un’opera che coniuga rigore scientifico e probità intellettuale, qualità narrative e l’eleganza di uno stile fascinoso. Il volume, con introduzione del sacerdote Michele Amorosini e prefazione di Francesco Picca, dedicato a Mons. Luigi Martella, “custode della bellezza al di fuori e al di sopra del tempo”, annovera ben 93 tavole, in buona parte a colori, ed è corredato da una ricca e puntuale “Nota bibliografica”, che introduce il lettore nello scriptorium dello studioso. Mongelli elabora una biografia scandita dai percorsi artistici e dagli incontri del Cifariello, chiamando a raccolta le auctoritates critiche, con particolare riferimento a Mario Marangoni, autore della monografia Cifariello, Milano 1936, per poi attingere a numerose altre fonti, ridiscusse con acribia e originalità, dalle memorie autobiografiche dello stesso artista, risalenti al 1931, agli archivi giornalistici e alle testimonianze fotografiche. Costante poi è il dialogo, ora per esprimere consenso ora per dissentire con garbo, con gli studiosi e i critici del Cifariello (e non solo), in un itinerario che ripercorre un secolo di storia dell’arte. Rivive la costellazione dei rapporti intrecciati da Cifariello: l’amico e poeta Rapisardi, al quale lo scultore si sentiva accomunato dalla medesima tempra, l’incontro con Luigi Capuana, ch’espresse un lusinghiero giudizio sul ritratto di Vera Gourian. Come in un romanzo, emergono le ferite della biografia (la tragica morte di Evelina, la seconda moglie) e della storia (il conflitto mondiale, il terremoto di Messina e quello della Marsica, le leggi razziali, che costarono la vita al gallerista Lino Pesaro, stoicamente morto suicida). In particolare, tutto si annoda intorno a quella che fu definita, in un articolo giornalistico del 1908, “un’alba calda e radiosa di agosto a Posillipo”, in cui Cifariello, a causa dell’ennesimo tradimento e dell’ennesimo amante, uccise la sposa Maria De Browne. Quella stessa donna che aveva avuto un peso rilevante nel deterioramento - sebbene temporaneo – dei rapporti con l’allievo Giulio Cozzoli, finemente scandagliati da Mongelli, sui quali, negli anni di Passau, fu proiettata l’ombra della gelosia del Maestro per la devozione del giovane alla bella moglie. Costante è l’attenzione alla genesi delle opere: interessante l’accostamento, operato da Mongelli, di figure come il Vecchio acquaiolo del 1882, lo Scaccino (1884 ca.) e la Zia Teresa (medesimo anno) alle storie che brulicavano nel Ventre di quella Napoli che, nello stesso 1884, Matilde Serao dava alle stampe per i fratelli Treves, “irritata dalle rituali ‘descrizioni colorite di cronisti con intenzioni letterarie’”. Nel lavoro di Mongelli, nessun informazione è riportata casualmente o per fini di mera erudizione: anche nel momento in cui scrive che lo Scaccino fu acquistato da Augusto Corelli, “pittore che si perfezionò nelle tele di genere, dopo aver studiato all’Accademia di San Luca”, sembra che stia fornendo un semplice dato antiquario e invece sta dischiudendo tutto un ventaglio di rapporti e influenze da studiarsi alla luce della bloomiana “angoscia dell’influenza” (in questa chiave deve essere letto anche il discorso sull’anglosassone James Hunt). L’esperienza di Cifariello fornisce spesso l’occasione per una riflessione sui modelli con cui da secoli la nostra produzione pittorica deve confrontarsi: sto pensando, per esempio, al riferimento al “caravaggismo di ritorno”, categoria in ciclica reiterazione quando l’uomo “si pone alla ricerca dell’io e dell’altro” (p. 44). Molte accurate e raffinate appaiono anche le descrizioni delle opere scultoree. Mongelli, oltre a studiarne la genesi, ne pennella anche la fortuna. Ricordiamo, per esempio, la competenza nel tratteggiare il presunto cammino delle Settembrina, dalla sua prima realizzazione alle trenta copie circa in bronzo successivamente realizzate. Scultura che, tra influenze amendoliane, (la “Venere che svolge la chioma” e l’“Autunno”) e d’altri artisti (si pensi alle Veneri del Renda), rappresenta la dimostrazione di quanto un felice intarsio di contaminazioni sorregga le opere di gusto neorinascimentale. Interessanti le pagine dedicate ai rapporti tra Cifariello e l’arte pittorica. Non a caso Ugo Fleres scriveva come l’artista gli sembrasse “nato forse più pittore che scultore”. Sulla base del “Supplemento” alla Monografia Cifariello, edito nell’autunno 1924, a cui si deve anche la provvidenziale restituzione delle “coordinate anagrafiche della famiglia Cifariello”, Mongelli ricostruisce i fattori della limitata, ma non modesta, produzione pittorica del molfettese, effettuando anche correttivi rispetto alle affermazioni in esso contenute e fornendo un giudizio positivo di tale esperienza, “in grado di dominare in nuce un colore materico e tonale”, figlia forse “della conoscenza del Fondo Farnese di Capodimonte ed anche dalla condivisione della pittura di Gioacchino Toma”. Pittore, quest’ultimo, molto interessante, che nella ritrattistica raggiunse risultati di grande finezza psicologica, come ci sembra di ravvisare nello splendido Ritratto di giovane chierico esposto presso la Galleria Nazionale della Puglia a Bitonto. Seguendo il percorso di Cifariello l’attenzione si posa anche sugli exempla di storia patria, attraverso l’analisi delle terrecotte ebanizzate di Venosa, monumenti ai patres patriae (Cavour, Mazzini, il re Vittorio Emanuele II, Garibaldi), che dialogano con un codice retorico-figurativo attestatosi in ambito pittorico-scultoreo (Mongelli cita i casi di Cremona e Hayez) e che in scultura si era tradotto in un rigoglio monumentale di carattere educativo, tacciato di banalità e definito addirittura una “iattura” dal Wittkower, rispetto al quale il curatore manifesta il suo dissenso. Un’opera, insomma, di respiro notevole, che, seguendo i destini incrociati di Cifariello, delle sue mogli, dei suoi figli, di critici, committenti, galleristi, amici pennella un affresco straordinario, in cui “Pensiero (…) verità, umanità” e bellezza, in tutte le sue estrinsecazioni, si fondono felicemente. © Riproduzione riservata

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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