Eugenio Scardaccione: Tu bocci, io sboccio
RECENSIONE
Percorrere il proprio iter scolastico può essere uno sfogo autobiografico a se stante: ma, se realizzato con l'impegno genuino di fare da cavia per proporre al lettore una diagnosi della scuola, ben vengano testi come questo di Eugenio Scardaccione (Tu Bocci, io sboccio. La Meridiana Edizioni, Molfetta, pag. 80. € 10,00)
La “trama” ha inizio dalla nascita dell'autore in Aliano (provincia di Matera) e si snoda tra le cittadine pugliesi in cui l'allievo Eugenio ha studiato, sognato, sofferto.
Tuttavia il motivo ispiratore del testo è, credo, nella domanda che l'autore si pone e ci pone tra pagina 77 e pagina 80: “Che cosa significa educare? … Quale rapporto esiste tra la maieutica, la non violenza e la crescita creativa? … Perché nelle aule scolastiche non si cercano e ricercano le cause del disagio e delle difficoltà di apprendimento? …”
In queste domande crudeli per tutti coloro che vivono la scuola come mestiere per una biologica sopravvivenza, trovasi tutta, o quasi tutta, la problematica civico-culturale e pedagogica da affrontare per chi ha a cuore il monito di don Milani: bisogna preoccuparsi non solo di come bisogna fare scuola ma di come bisogna essere scuola.
Molto difficile impegnarsi affinché il dovere-diritto dell'apprendimento non venga trasformato in strumento di differenziazione; sarebbe in tal caso come se un ospedale curasse i sani e non i malati.
Questo concetto fu asserito da quei ragazzi di Barbiana in una lettera alla professoressa (istituzione scolastica) che imponeva i versi di Monti ma non reputava necessario che gli studenti conoscessero il contratto dei lavoratori; ossia le condizioni di vita di migliaia di famiglie. Quei ragazzi furono bocciati … per sbocciare poi con le loro proposte didattiche “oscene” ancora oggi e scambiate per scuola facile, mentre è tutto il contrario.
Scardaccione quindi parte dalle sue esperienze di studente, attraversa i campi di lavoro, i seminari vissuti in prima persona come uomo, docente, dirigente scolastico, padre, discente sempre e ne fa linfa della sua personalità, della sua professionalità nonché della sua “poetica” di scrittore, alla prima prova.
Per essere poeti non basta scrivere poesie ma occorre anche vivere da poeti.
Quel prete gesuita, insegnante (?) di materie letterarie in un istituto scolastico, in cui ancora alla fine degli anni '60 dominava una religiosità morbosa, oppressante, facente capo a un dio minaccioso e collerico, caro a chi reputa indispensabili imbrigliare, attraverso l'esercizio del sapere, coscienze, stati d'animo, natura … è categoria non scomparsa; alberga torbida nei meandri psichici di coloro che si sentono sicuri e protetti nell'archivio accidioso di regole immutabili.
“I bravi da una parte – scrive Scardaccione della didattica di questo gesuita – gli asini dall'altra … Padre Giosuè provava un gusto sadico nel creare questo particolare clima di competizione …” (pag. 21).
Laureandosi in Pedagogia e Filosofia (tesi di laurea sull'eretico marxista Roger Garaudy) quindi laureatosi anche in Lettere (tesi di laurea sul romanzo America di F. Kafka) Eugenio Scardaccione continua “a fare danni” convinto, e noi con lui, che vale sempre la pena lottare con la scrittura, con la parola, con la prassi per contrastare i mercanti di coscienze avariate che a tutt'oggi dominano, in ogni luogo.