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ESCLUSIVA: "Quindici" incontra Sergio Rubini A margine della serata conclusiva del Progetto Giovani&Arte, intervista al regista pugliese
11 novembre 2008

MOLFETTA - L'occasione unica di incontrare un artista unico: Quindici non poteva lasciarsela sfuggire e, a margine della serata che ha concluso il Seminario-Laboratorio “Il mestiere dell'attore”, iniziativa del Progetto Giovani&Arte-Giovanni Paolo II, nella sala San Francesco della Basilica Madonna dei Martiri, ha intervistato l'attore e regista pugliese Sergio Rubini, ideale padrino del corso. Una conversazione sul sud, sulla Puglia e sull' altrove, sulla cultura popolare, sull'infanzia e sulla maturità, sciolta e piacevole, avvenuta poco prima che il regista consegnasse gli attestati ai partecipanti del corso (iniziativa di due giornate di cui abbiamo parlato dettagliatamente nell'articolo di ieri), all'interno di un progetto sempre più attivo sul territorio, con costanti proposte consultabili sul sito www.progettogiovaniearte.org Per qualche minuto, prima della chiusura, l'autore di La terra, Colpo d'occhio, La stazione e molte altre pellicole, è stato tutto nostro. Sergio, hai sempre ritratto la tua terra, la Puglia, con attenzione, quasi con affetto, per quella sottocultura fatta di colore, di dialetti, ma anche di superstizione: ad oggi di questo bagaglio culturale, del sapere popolare, cosa ti è rimasto addosso? "C'è una dimensione del passato, del sud, che è presente, è in vita, nel senso che fa parte ancora della cultura, del costume, che sento ancora viva: è una dimensione che fa parte della cabala, della superstizione, una dimensione comunque pagana, non tanto esoterica quanto concerente la presenza forte della natura, che genera una sensibilità nel sud, una sensitività. Io me la porto dentro, perché fa parte anche delle cose che ti vengono insegnate quando eri bimbo: nel sud c'è ancora un mondo leggendario, misterico, e io me lo porto dentro anche con una certa fierezza, perché è la parte pregiata della personalità, non solo dal punto di vista antropologico, ma anche da quello umano. E, facendo un lavoro creativo, quell'interesse, quella curiosità, li trasferisco nei miei film". In “Tutto l'amore che c'è”, hai raffigurato l'incontro-scontro tra quel tipo di sonnolenta estrazione provinciale pugliese, e il fascino quasi travolgente della gente del Nord, o comunque della grande città. In un artista partito, come te, dalla provincia popolare, e che ha raggiunto l'affermazione intellettuale nella grande città, quale dei due elementi vince, e come riescono a convivere ? "Io di sicuro sono un provinciale, mi ritengo tale, lo sarò sempre e ne sono anche fiero. Qualora dovessi non esserlo, sono sicuro che non ci riuscirei, se sei provinciale lo rimani. Certo, l'altrove, il Nord, mi ha sempre interessato, da ragazzino ho fatto molti viaggi, dal Nord ero molto affascinato, mi è sempre sembrato più razionale, più armonico, meno contraddittorio. Un Nord inteso come la biondezza, era il mio nord, ognuno ha il proprio Nord: io ho provato questa tensione per il nord, che rappresentava anche la metropoli, la grande città rispetto alla provincia. Ho provato questa sensazione, e grazie alla curiosità mi ci sono confrontato con quella dimensione. Penso che mi abbia fatto bene, ma questo non significa che io sia diventato un cittadino, o un nordico. Rimango un uomo della provincia del sud, e lo sarò sempre". La voce è chiara e precisa, l'energia è la stessa che Rubini ci metteva il giorno precedente, nel dare direttive ad attori in fondo amatoriali, e nel pretendere da essi il massimo. Andiamo avanti, e Sergio Rubini apre perfino il cuore. Da giovanissimo, appari in “Mortacci” di Citti, in cui hai il grande incontro con il cinema d'autore. Nell'esperienza di questo laboratorio ti sei confrontato con dei ragazzi che sono in quella fase di conoscenza e di scoperta. Cosa hai provato nel guardare loro e le ambizioni di quella età, e cosa di quel ragazzo che faceva il soldato in “Mortacci” è sopravvissuto in te, cosa ha perso, cosa invece ha guadagnato ? "E' chiaro che quello di quel film sono fondamentalmente io, però sono completamente diverso. Lo so, sono completamente diverso, sono un attore completamente diverso e soprattutto un uomo diverso. Ho comunque vent'anni di più, ma penso che ci sia una parte che sono riuscito a conservare, ma che è legata all'innocenza, ad un periodo addirittura precedente a quello di Mortacci. Più che il me ragazzo, è il me bambino che sono certo di portarmi dietro, con tutto quello che di problematico questo comporta, perché alle volte è giusto ed è bene crescere ed accettare di essere cresciuti, quando questa parte più bella e più fragile di te, che tanto ti emoziona, delle vote tanto ti prova, ti fa soffrire, è incapace di affrontare i grandi dolori, il mondo con le sue regole. Quello di Mortacci era già un giovane professionista, alla ricerca di un'identità, né carne né pesce: in qualche modo mi è lontano. Vero, ha grossomodo l'età di questi ragazzi, con cui è stato un incontro bellissimo: ero già stato coinvolto in questa iniziativa, avevamo fatto già un assaggio due o tre anni fa, ma era stato un incontro molto più generico, improntato al racconto della mia filmografia. Questa volta, invece, abbiamo messo in piedi un vero laboratorio, che aveva tre insegnanti (assieme a lui Dino Abbrescia e il giovane Pierpaolo Vitale, ndr), e ognuno in qualche modo era portatore della propria esperienza e, quindi, ognuno ha ricevuto una infarinatura tecnica. Dall'incontro con Vitale è venuto fuori il racconto della sua esperienza al Centro Sperimentale, come esso è strutturato e organizzato, ha dato notizie a chi avesse voglia di provarlo; poi c'è stato l'apporto di Dino, che è un comico, che invece è partito senza una scuola, col cabaret, con la sensibilità del comico e la capacità di improvvisare. Poi, io ho pensato di fare dei veri provini, come fossi alla ricerca di un attore o di una attrice, per cui mi sembrava che, alla fine, avessimo dato a queste persone un quadro, perché poi ognuno, con la partecipazione che intende dedicare, potesse avere un'idea di questo ambiente, di questo mondo, sia dal punto di vista tecnico che da quello teorico, che da quello pratico. Ho da raccontarti una cosa, perché tu possa sapere una cosa in più, un inizio del tuo percorso. Ne sono molto fiero, perché loro erano tutti persone molto giuste, molto ricettive, portatrici di curiosità. Oggi ancora ne parlavamo, io e Dino Abbrescia: è stata una bellissima cosa, mi è molto piaciuto”. Sono le parole che idealmente chiudono tre giorni speciali per una ventina di ragazzi: probabilmente tutti torneranno alle loro professioni, alle incombenze lavorative che la vita richiederà. “Non ci hai venduto fumo, ti ringraziamo”, ha detto a Rubini una di loro, poco prima della consegna degli attestati. Vero: nessun convenevole di circostanza, solo tanta serietà, rispetto professionale, consigli, bruschi, a volte. Ma se si ha l'opportunità vedere all'opera un artista, e sentirlo rispondere alle proprie domande, tenendo fede a una promessa, non c'è attestato migliore.
Autore: Vincenzo Azzollini
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