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Don Giacinto Panunzio, docente di francese, poeta e politico, grande amico di Salvemini
15 gennaio 2011

Caro Giovanni, ho letto con molto interesse il libro dedicato al Centenario della Università Popolare di Molfetta. Lo abbiamo commentato con i giovani e meno giovani che, come sai, frequentano la mia casa. Specialmente per il periodo della gestione di Don Giacinto Panunzio, periodo che ho vissuto personalmente, mi sono venuti in mente tanti episodi e particolari che mi hanno fatto commuovere. Peccato che, come al solito, io non possa giovarmi della presenza di Giovanni e della “verve” con cui parlava del suo amato Maestro. Don Giacinto riuscì a trasformare un ragazzetto discolo di quindici anni che fino a quella età non aveva letto nemmeno i fumetti di “Cino e Franco”, in un giovane pensoso e innamorato degli studi. Scusate se è poco! Giovanni ha lasciato tanti ritratti di persone del suo tempo in scritti che spero di pubblicare in qualche modo, ma di Giacinto non ha scritto nulla, purtroppo. Ma ne parlava spesso in casa e fuori, tanto che alcuni detti sono rimasti nel “lessico familiare”. Per esempio questo, che veniva ripetuto con un gesto tipico, quello di toccarsi con la mano la narice destra: “Giovanni, dove vuole arrivare?” (il tutto naturalmente in dialetto, lingua che è così difficile da riportare per iscritto, che io non mi ci provo nemmeno). Perciò mi è dispiaciuto che qualcuno abbia scritto di Giacinto (ormai lo chiamiamo così, in quel modo familiare che gli era così caro) che è stato un “pessimo insegnante di francese”. Ma scherziamo! Un suo alunno ha protestato dicendo: “Ma se lui ci immetteva nella civiltà francese, ci faceva venire il gusto di andare a leggere gli autori francesi (che poi nella famiglia Poli-Panunzio erano di casa). Non ci insegnava i verbi, va bene, ma i verbi ce li andavamo a studiare da noi, perbacco!”. Un altro, sdegnato, mi ha detto: “Quell’uomo ci ha ‘formato’, altro che”. In mancanza del testimone diretto, sono costretta io a ricordare le cose che raccontava Giovanni, quando era di buon’umore e ci faceva fare un sacco di risate. Cominciava dall’inizio, “dalla Torre della cera”, come diceva. Egli era stato destinato alla classe di inglese, in quinta ginnasiale (la quarta l’aveva fatta privatamente), quando per una monelleria fu mandato, “provvidenzialmente” nella classe di francese con Don Giacinto. La professoressa di inglese era una bella giovane, la signora Panetta. Un ragioniere che lavorava nel frantoio del nonno di Giovanni, quando sentì che l’insegnante era una donna (cosa rara a quei tempi), maliziosamente disse allo sprovveduto ragazzetto: “Quando entra la professoressa, tu dì: Miss, give me a kiss”. Giovanni diceva che lui non aveva capito che era uno scherzo (chissà!), comunque, quando entrò la Panetta in classe, pensando di fare pure bella figura a parlare in inglese, disse ad alta voce la famosa frase. L’insegnante, tutta rossa in viso, lo cacciò fuori e chiamò il Preside. Veramente Giovanni si stava chiedendo che capperi avesse detto di così grave, forse una bestemmia, una parolaccia; poi si accorse che la Panetta e il Preside ridevano fra loro e si tranquillizzò. Andò in seguito a protestare al ragioniere, ma quello gli disse: “Sai che significa? Signorina, mi dai un bacio?”. E tu gliel’hai detta davvero? Insomma la cosa finì lì e il ragazzo andò a studiare francese nella classe di Don Giacinto. Erano in pochi nella classe di francese; faceva da aula una piccola cucina di un palazzo di Molfetta, adattata allo scopo.Caro Giovanni, ho letto con molto interesse il libro dedicato al Centenario della Università Popolare di Molfetta. Lo abbiamo commentato con i giovani e meno giovani che, come sai, frequentano la mia casa. Specialmente per il periodo della gestione di Don Giacinto Panunzio, periodo che ho vissuto personalmente, mi sono venuti in mente tanti episodi e particolari che mi hanno fatto commuovere. Peccato che, come al solito, io non possa giovarmi della presenza di Giovanni e della “verve” con cui parlava del suo amato Maestro. Don Giacinto riuscì a trasformare un ragazzetto discolo di quindici anni che fino a quella età non aveva letto nemmeno i fumetti di “Cino e Franco”, in un giovane pensoso e innamorato degli studi. Scusate se è poco! Giovanni ha lasciato tanti ritratti di persone del suo tempo in scritti che spero di pubblicare in qualche modo, ma di Giacinto non ha scritto nulla, purtroppo. Ma ne parlava spesso in casa e fuori, tanto che alcuni detti sono rimasti nel “lessico familiare”. Per esempio questo, che veniva ripetuto con un gesto tipico, quello di toccarsi con la mano la narice destra: “Giovanni, dove vuole arrivare?” (il tutto naturalmente in dialetto, lingua che è così difficile da riportare per iscritto, che io non mi ci provo nemmeno). Perciò mi è dispiaciuto che qualcuno abbia scritto di Giacinto (ormai lo chiamiamo così, in quel modo familiare che gli era così caro) che è stato un “pessimo insegnante di francese”. Ma scherziamo! Un suo alunno ha protestato dicendo: “Ma se lui ci immetteva nella civiltà francese, ci faceva venire il gusto di andare a leggere gli autori francesi (che poi nella famiglia Poli-Panunzio erano di casa). Non ci insegnava i verbi, va bene, ma i verbi ce li andavamo a studiare da noi, perbacco!”. Un altro, sdegnato, mi ha detto: “Quell’uomo ci ha ‘formato’, altro che”. In mancanza del testimone diretto, sono costretta io a ricordare le cose che raccontava Giovanni, quando era di buon’umore e ci faceva fare un sacco di risate. Cominciava dall’inizio, “dalla Torre della cera”, come diceva. Egli era stato destinato alla classe di inglese, in quinta ginnasiale (la quarta l’aveva fatta privatamente), quando per una monelleria fu mandato, “provvidenzialmente” nella classe di francese con Don Giacinto. La professoressa di inglese era una bella giovane, la signora Panetta. Un ragioniere che lavorava nel frantoio del nonno di Giovanni, quando sentì che l’insegnante era una donna (cosa rara a quei tempi), maliziosamente disse allo sprovveduto ragazzetto: “Quando entra la professoressa, tu dì: Miss, give me a kiss”. Giovanni diceva che lui non aveva capito che era uno scherzo (chissà!), comunque, quando entrò la Panetta in classe, pensando di fare pure bella figura a parlare in inglese, disse ad alta voce la famosa frase. L’insegnante, tutta rossa in viso, lo cacciò fuori e chiamò il Preside. Veramente Giovanni si stava chiedendo che capperi avesse detto di così grave, forse una bestemmia, una parolaccia; poi si accorse che la Panetta e il Preside ridevano fra loro e si tranquillizzò. Andò in seguito a protestare al ragioniere, ma quello gli disse: “Sai che significa? Signorina, mi dai un bacio?”. E tu gliel’hai detta davvero? Insomma la cosa finì lì e il ragazzo andò a studiare francese nella classe di Don Giacinto. Erano in pochi nella classe di francese; faceva da aula una piccola cucina di un palazzo di Molfetta, adattata allo scopo.

Autore: Liliana Minervini-Gadaleta
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