Da Estetica delle migrazioni a migrazioni dell’estetica
Sono solo colori. Non può sbagliarsi Immanuel Kant quando, nella Critica del giudizio, definisce bello ciò che piace universalmente, senza concetto. Proprio perché il bello esprime il piacere senza dipendere da un’esperienza, dovremmo imparare a fidarci più dei nostri giudizi estetici che dei nostri giudizi empirici, poiché questi ultimi sono molto spesso il frutto, più che di una personale esperienza, di stereotipi imposti dalla bombardante opinione della società. L’idea di Giovanni Perillo, docente di arte e immagine specializzato in Arti Visive all’Accademia delle Belle Arti di Brera, concretizzatasi attraverso il libro “Skin color test”, dimostra l’attendibilità dei giudizi estetici applicati alle migrazioni, dando avvio all’originale processo dell’Estetica delle migrazioni. «Un esperimento che ho fatto alla Fondazione Medima di Milano nel 2010 è stato l’avvio di un progetto in cui non escludo del tutto il ruolo del caso. Ho fatto un gioco di società in cui ciò che mi ha colpito di più è stato il risultato finale: la costruzione di uno spaccato di società che si incontra in maniera quasi casuale, ma che si sente una comunità, o perlomeno ha voglia di sentirsi comunità. Persone totalmente estranee tra loro, a partire da questo esperimento, hanno iniziato a parlare per il semplice fatto di essere “in mostra”. Questo mi dato l’idea di comunità come “insieme di diversità”», dice a “Quindici” Perillo. Purtroppo, però, questa è una definizione solo teorica dell’impellente bisogno del XXI secolo, quello di comunità, che si traduce in “insieme di stereotipi”. Gli stessi su cui Perillo ha lavorato assieme ai suoi alunni, mostrando loro dei filmati in cui vengono mostrati dei volti, prima associati ad una professione e poi ad un carattere. Mentre fortemente radicata resta la memorizzazione del binomio volto/ professione, ad essere soggetta alle più svariate interpretazioni è la coppia volto/carattere. Ciò si spiega con la morte dell’autore che coincide con la nascita del lettore: ogni ragazzo riporta nei volti la propria interpretazione, fondamentale per il processo creativo, in cui non contano affatto le informazioni registrate. Solo l’attivazione di questo processo, l’operare dell’opera, grazie a cui un’opera parla tramite chi la interpreta, può raggiungere l’abbattimento di preconcetti infondati. «Ma proprio perché non bisogna fermarsi ad un solo esperimento, né ad un solo tipo di esperimento, ho proposto ai ragazzi di lavorare sulle opere di Giacomo Balla. Mentre ad una classe ho chiesto di scrivere ciò che associano, rispettivamente, alle idee di pessimismo ed ottimismo, per poi associare i titoli individuati alle opere di Balla nel caso in cui lo si fosse ritenuto opportuno, con un’altra classe ho seguito esattamente la procedura inversa. Ho mostrato prima le opere e poi ho chiesto di elaborare le idee di ottimismo e pessimismo. Nel primo caso il 98% degli alunni ha optato per l’ottimismo; nel secondo, invece, il risultato si è ribaltato e il pessimismo è prevalso, perché ritenuto uno spettro evocativo disparato ed eterogeneo». Ed ecco che di fronte alla banalità dell’ottimismo, a prevalere è il pessimismo, in una concezione propria di Schopenhauer, e non sulla base di un accordo percettivo. L’associazione alle opere resta invariata, proprio come il senso di ottimismo e pessimismo: ciò che subisce una radicale trasformazione è la connotazione che ha cambiato un pregiudizio, fornendo un’immagine del pessimismo tanto nuova quanto affascinante. «Tutto si fa più complesso di fronte ad un immaginario comune che va in pezzi assieme agli stereotipi. É stata questa la spinta energetica sulla quale ho continuato a lavorare. L’indubitabile influenza della semiotica mi ha portato ad elaborare un gioco di “ars combinatoria” in cui ho ricreato i processi migratori su delle mappe, che ho chiamato di “massimo esodo” e di “minimo esodo”». Il successo del “massimo esodo” si spiega con una naturale preferenza della variazione alla ridondanza. Una ridondanza che non ha caratterizzato affatto i successivi esperimenti artistici, fatti invece con le diverse colorazioni della pelle umana. «È stato estremamente interessante vedere come alunni di carnagione chiara preferivano le colorazioni scure o quelle miste e viceversa. Le immagini suscitavano nei ragazzi maggiore armonia, scaturita proprio dal contrasto. Loro stessi hanno definito le colorazioni scure profonde e quelle chiare piatte e banali. Ma la percezione dei sedici quadrati è cambiata quando ho aggiunto il particolare che avevo volutamente omesso all’ inizio, per non inserire forzature sociali. A partire dal linguaggio non verbale, molto più indicativo ed immediato di quello verbale, le reazioni sono state davvero tante: ho visto facce ritratte per il semplice trattarsi di pelle umana e non di meri colori». La simbolizzazione dell’immagine comincia dove finisce il giudizio puramente estetico: l’eterogeneità di colori smette di essere considerata come tale per imprimere l’idea di un mondo globalizzato, in cui convergono culture e popoli. Non è più un esperimento estetico, ma un esperimento sociale, perché ad essere valutata non è più la colorazione ma una definizione socialmente identificabile, in cui neanche l’esperienza conta quanto il preconcetto. La differenza è lampante anche tra Bari e Milano: mentre nella prima città si assiste ad un retaggio culturale di matrice fortemente cattolica, che tende a far prevalere le colorazioni di pelle chiare perché si è abituati a quelle, a Milano, dove si conta la presenza più numerosa di studenti e di cittadini stranieri, il retaggio è laico e la preferenza generale si orienta verso le colorazioni più scure. Alla domanda “Quali reazioni si aspettava dalle persone a cui avrebbe proposto l’esperimento?”, Perillo è schietto nel rispondere “Non mi aspettavo reazioni. Non mi aspettavo un effetto talmente profondo ed immediato”. Ma proprio queste reazioni, che non sono state diverse quando l’esperimento è stato riproposto ad individui di fasce di età adulte, hanno generato l’effetto paideutico auspicato. La dicotomia non risiede nel mondo, ma dentro di noi. Il mondo non ha più colorazioni di pelle di quante sono le molteplicità della nostra personalità. Forse prima di unire il mondo, dovremmo unire noi stessi, perché c’è una parte di noi che apprezza la diversità, l’altra che ne ha paura. C’è una parte di noi che coglie, valuta, interpreta e c’è una parte di noi che ascolta e interiorizza. E poi c’è una parte di noi che sa di non essere sola, conosce perfettamente l’opposto che la alimenta e in fondo sa anche che come un individuo si regge sul proprio contrasto, anche il mondo può farlo, deve imparare a farlo. Può sembrare che questo esperimento sia un invito a fermarci alle apparenze, ma in realtà ci dà solo l’apparenza di fermarci. Fermarci per andare oltre. © Riproduzione riservata