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Cultura monetizzata, uno spasmo intestinale del cliché intellettualoide di Molfetta
26 ottobre 2012

MOLFETTA - Il valore della cultura non dovrebbe misurarsi in euro. Purtroppo, questa è divenuta una delle caratteristiche imperanti nella Molfetta dell’«usa e getta», dell’ambulantato diffuso, dell’arraffamento finanziario, della cementificazione confusa e del cliché intellettualoide.
Molfetta sembra essere una città senza cultura, se «cultura» deve essere anche sinonimo di «civiltà». Degrado, abusivismo, maleducazione, poca coesione sociale, disinteresse politico, personalismo spinto e lobbismo economico trasversale: la parola «cultura» senza aggettivi, che possiede la propria ragion d'essere, è divenuta quasi una parolaccia per i cosiddetti «castaldi».
Esistono a Molfetta realtà culturali interessanti, ma senza appeal sociale o comunitario in assenza di un assessorato alla cultura che sia perno esecutivo e pianificatorio per la collettività e non solo per partiti sociali o interessi personali.
Ad esempio, nel consuntivo 2011 le funzioni relative alla cultura e ai beni culturali sono collocate tra i residui passivi: la cultura è una spesa, un “rifiuto” speciale da smaltire. Davvero riduttiva questa visione politico-amministrativa, che sottolinea ancora una volta la totale assenza di una programmazione culturale locale.
Sembra quasi che la cultura sia solo un fastidioso spasmo intestinale, surrogata e spezzettata in manifestazioni, convegni, vari corsi di formazione, eventi, spettacoli e concerti che, al momento di tirar le somme, non lasciano niente (in extrema ratio, le briciole di un panino o il bicchiere di una bibita). De facto, il Comune di Molfetta finanzia diverse associazioni, ma la giunta Azzollini dimentica il «fine».
Tra l’altro, le stesse delibere e determine di finanziamento comunale sembrano essere una parte non secondaria di un multiforme vaso di Pandora: un cult americano, una specie di saga tra «figli e figliastri».
Infatti, il Comune di Molfetta nel 2012 ha ratificato finanziamenti per convegni di associazioni, restauri di monumenti in varie parrocchie locali, attività sociali, mostre, eventi culturali a tema, notti bianche, eventi musicali e concerti hollywoodiani. Alcune associazioni minori (apolitiche o senza legami politici e «familiari») stanno ancora aspettando che il Comune eroghi ufficialmente il contributo promesso, attraverso la pubblicazione sull’albo pretorio online di una delibera o determina del settore comunale di riferimento. Di contro, soprattutto per determinati eventi le determine sono state pubblicate subito dopo l’evento o, addirittura, il giorno stesso in cui l’associazione o la fondazione ha richiesto il contributo comunale con una contestualità poco trasparente. Un vero record di fronte a una burocrazia indefinita, farraginosa e lenta.
Per di più, determinate manifestazioni e concerti si vestono di un indefinito e indefinibile habitus. Ad esempio, una vasta area socio-culturale continua a chiedersi il senso di programmare per la stagione estiva grandi concerti, fruibili solo da pochi eletti e in gran parte pagati dalla collettività, in tempi di vacche magre, invece di elaborare un piano esecutivo di gestione nell’ambito culturale. Assente una pianificazione culturale comunale, tutto resta un mero palliativo elitario.
Anche questi eventi estivi, inseriti in un programma, potrebbero essere considerati cultura latu sensu, anche se in un’accezione «commerciale»: del tipo panem et circenses perché, in teoria, gli effetti economico-commerciali di un grande concerto che richiama milioni di persone dovrebbero ricadere sull’indotto commerciale locale, altrimenti l’evento resterebbe fine a se stesso, come una sterile medaglia da collocare sul petto.
La possibile ricaduta positiva sull’indotto economico-commerciale locale è una legittima giustificazione, considerando anche i nomi dei personaggi approdati a Molfetta e la visibilità ottenuta a livello regionale, nazionale e, in alcuni casi, internazionale. Cosa sia poi rimasto a Molfetta, a nessuno interessa. In pochi ricordano gli eventi degli anni passati: così potrebbe accadere per il prossimo anno semplicemente perché non resta niente, se non le briciole.
Tra l’altro, è anche difficile irrorare l’indotto molfettese perché mancano le strutture basilari: pochi locali, poco shopping, centro storico addormentato. Tutto resta chiuso in un imbuto dorato, che non può essere considerato «cultura».
Del resto, sarebbe un mistero capire come altre città, di gran lunga inferiori a Molfetta (il cui impatto ambientale dovrebbe essere potenzialmente positivo) abbiamo un tourbillon di turisti e visitatori esterni senza organizzare grandi eventi musicali e spendere più del necessario.
Ad esempio, con i quasi 230mila euro versati dalle casse comunali per i concerti dell’estate molfettese si sarebbe potuta organizzare una rete culturale di ampio respiro con eventi più radicati sul territorio (anche concerti con nomi blasonati, ma in quantità inferiore).
Si tratta di differenti scelte amministrative, di cassa e di posizione politico-culturale: ma il fine, in ogni caso, dev’essere il potenziamento del territorio perché, se spogliato della sua essenza e più povero economicamente e commercialmente, qualsiasi scelta eseguita, anche se legittima e giustificata con mille rivoli, sarà stata sempre fallimentare.
A Molfetta l’anoressia di civiltà è strettamente connessa anche all’assenza di cultura intesa come rispetto della città, delle sue tradizioni (non finalizzate allo spettacolarismo settario) e del suo essere intimo nella storia. Anzi, potrebbe dipendere dalla bulimia di cultura commerciale e troppo elitaria che, invece di potenziare il territorio, lo depaupera, crea sacche di dissenso (legittime e da analizzare senza pregiudizi o dietrologie) e non sana i suoi reali tumori intestinali.
La cultura non trae valore dall'essere salottiera o inutile: non deborda nel qualunquismo spicciolo o nello spreco di soldi pubblici. Crea uno spirito critico, forma e induce ad agire, risveglia l’animus di una città, consentendole di (ri)assumere piena consapevolezza di sé e di riscoprirsi comunità unità dove le distinzioni socio-finanziaria si appiattiscono. Una condizione non monetizzabile.
 
© Riproduzione riservata
 
Autore: Marcello la Forgia
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Un tempo le speranze erano invero tali da mozzare il fiato. I portatori di Lumi, i dotti, gli intellettuali credevano di avere qualcosa di grande importanza da offrire a una umanità malata e in “attesa”; credevano che gli studi umanistici, una volta seguiti e assimilati, avrebbero reso le persone più umane; che avrebbero riplasmato la vita degli esseri umani, i loro rapporti, la loro società. La cultura, prodotto collettivo e proprietà cara agli intellettuali, era vista come l'unica possibilità che l'umanità aveva per respingere i pericolo congiunti dell'anarchia sociale, dell'egoismo individuale, dell'unilaterale, mutilante e sfigurante sviluppo del sé. La cultura doveva essere uno sforzo congiunto, ma entusiasticamente e universalmente condiviso, per raggiungere la perfezione. Nessuno ha espresso questa speranza più acutamente di Matthew Arnold: “La cultura, che è lo studio della perfezione, ci conduce a concepire la vera perfezione umana come una perfezione “armoniosa”, che sviluppa tutti i lati della nostra umanità; e come una perfezione generale che sviluppa tutte le parti della nostra società………..Ma la cultura indefessamente si studia, non di erigere a norma su cui modellarsi ciò che possa piacere a qualsiasi persona incolta; ma di avvicinarsi sempre più a un senso di ciò che è veramente bello, grazioso e decoroso, e di far sì che esso piaccia alla persona incolta. E qui non possiamo non parlare del Nuovo Porto Commerciale della nostra città, Molfetta. Un Porto che piacerà alle persone colte e incolte, un Porto ideato e inventato per dare alla nostra città fama, e la giusta posizione culturale, commerciale che le compete. Bello, grazioso e decoroso! Chi si oppone a questo disegno? Diciamolo una volta per tutte: i soliti comunisti, e con questo è tutto detto.
Il motivo dominante è quello dell'opposizione: il puritano è scomparso o sta per scomparire, e una personalità completamente diversa sta per prenderne il suo posto. Una personalità tanto odiosa in quanto è l'esatto contrario di quella che i “philosophes” sognavano di formare, e particolarmente refrattaria ai tipi di servizi che i discendenti dei philosophes sono in grado e si sentono destinati a offrire. In quella che probabilmente è stata la più appassionata affermazione della fine del puritano e delle sue gravi conseguenze, John Carrol annuncia l'avvento di una “cultura remissiva”, che produce la “personalità remissiva” e ne è prodotta. La cultura remissiva è un principio antimoralistica. In una cultura moralistica come quella puritana, i conflitti tra le esigenze della società e il desiderio dell'individuo sono risolti mediante l'imposizioni di proibizioni; norme indiscusse che regolano la condotta agiscono da palliativi per il panico e la disperazione. L'unica norma per il remissivo-edonista è quella di essere antipuritano, di attenersi a un codice simbolico di esigenze morali anarchiche – deboli ingiunzioni a non tenere conto delle norme -, di dubitare di tutti i valori ereditati, di negare il primato di qualsiasi organizzazione e personalità. E' questo uno stato di “rivoluzione culturale permanente”, con la riserva che un attacco troppo vigoroso alle vecchie strutture d'ordine è nevrotico, sintomatico del fatto di prendere quegli ordini troppo seriamente, di non essere adeguatamente emancipati da essi. Ma questo anarchismo rappresenta la visione che il remissivo ha di se stesso piuttosto che una qualsiasi realtà. Uno stile remissivo è necessariamente normativo, favorevole alla spontaneità, all'intimità, all'abbandono edonistico, all'apertura emotiva, contrario all'autorità e al controllo. Le basi oggettive della colpa sono in via di abolizione; niente e nessuno è da biasimare, l'individuo è responsabile soltanto della scelta dei propri piaceri.


Per l'Italia, come in altri paesi, i beni culturali, le produzioni audiovisive, cinema, teatro, musica, l'insieme degli spettacoli dal vivo, l'editoria, l'informazione, il turismo, la ricerca scientifica e l'istruzione, le nuove tecnologie riguardano oltre i due terzi del Prodotto Interno Lordo. Ma in Italia, da molti anni a questa parte, si è deciso che queste produzioni non contano nulla o contano pochissimo. “La cultura non sfama!” ha affermato con tracotanza il ministro Tremonti, alfiere del governo Berlusconi impegnato a smantellare il ruolo del sostegno pubblico alle produzioni culturali. Tutte le produzioni culturali. La scuola e la ricerca, innanzitutto. Ma anche la musica, il teatro, il cinema, le produzioni artistiche in generale. La conservazione e la fruizione dei Beni Culturali, volàno decisivo dell'industria turistica che tanta importanza ha nel nostro paese. “La cultura non sfama!” continua ossessivamente a sostenere la destra italiana. Non sa che per ogni euro speso nell'acquisto di un biglietto di una mostra o di un museo, di uno spettacolo dal vivo, di un cinema o di un teatro molti euro vanno a chi lavora nelle produzioni di beni e servizi che si giustificano proprio in quanto legati alla domanda di cultura. “La cultura non sfama” andrebbe detto alle migliaia di persone che, a vario titolo, lavorano nel mondo della cultura nel nostro paese che solo per il comparto dell'audiovisivo occupa più dipendenti della FIAT, una tra le maggiori industrie pesanti del nostro paese. Per questo pensiamo che sia giunto il momento di mettere fine ai luoghi comuni che vedono le produzioni culturali appannaggio esclusivo di una elite colta e ricca per ritornare a vedere e riconoscere una nobile realtà fatta di grande lavoro, di specifiche competenze e di redditi certamente non alti, nella stragrande maggioranza dei casi. Ci aiuta in questo la manifestazione Fiom di Roma che ha dato un contributo anche alla percezione di un nuovo dato sociale e culturale che riguarda tutta la società e quindi anche la politica: i giovani dipendenti della Fiat e di molte altre aziende metalmeccaniche sono antropologicamente simili ai giovani precari e ai lavoratori della conoscenza. A questi cittadini lo Stato ha il dovere di dare delle risposte efficaci e coerenti. Rispondere rinunciando a spendere in sostegno alla cultura significa rinunciare al proprio dovere politico. E' noto a tutti infatti che la cultura favorisce la crescita individuale dei membri di una comunità e contribuisce a costruire e mantenere l'identità unitaria della comunità stessa. Spendere in cultura significa investire nel futuro e nel presente del paese. Significa decidere di attivare la coltivazione del gusto e permettere a tutti di acquisire la capacità di assegnare valore a beni dotati di forte contenuto simbolico e valoriale. Se si incrementano i consumi culturali, si incrementa anche la propensione al consumo e si mette in movimento un circuito virtuoso che porta a produrre altra cultura e a farne crescere la domanda a beneficio di tutti. Al contrario, se si decide di deprimere questi consumi, in breve tempo si rischia di lasciare che l'esperienza culturale venga percepita con un valore di molto inferiore a quello reale con un progressivo inaridimento di tutta la società, di tutti i comparti produttivi e dello standard di senso civico che costituisce la base di ogni aggregazione sociale.

Il passaggio dalla società industriale alla società della conoscenza sta comportando una decisa valorizzazione delle produzioni di beni immateriali e intangibili. Il valore dei “vecchi” prodotti industriali ha visto crescere le componenti legate al design, all'innovazione scientifica, alla ricerca di nuovi materiali, alle tradizioni artigianali, alla capacità di rappresentare la cultura di un luogo e di raccontarne la storia. Già a partire dalla metà del secolo scorso, le imprese e il mondo dell'arte e della cultura hanno iniziato a “parlarsi”. Hanno dato vita a una serie di relazioni, a volte polemiche altre volte concilianti, in cui lavoro intellettuale e lavoro manuale, come pure la produzione e il consumo, hanno iniziato a uscire dai loro steccati tradizionali per incontrarsi nell'arena della società e mettere in discussione le rigide categorie che definivano in modo separato gli “autori” dal “pubblico “, i “produttori” dai “consumatori”. Questi processi hanno prodotto ricchezza, hanno definito nuovi profili sociali e relazionali. Hanno dato vita a nuovi modelli di istruzione e formazione. Domanda e offerta sono uscite dalle categorie del marketing tradizionale e hanno iniziato a “parlarsi”. E' nata così una relazione che ha messo in contatto intrattenimento e cultura alta, in molti casi ha superato la definizione dei generi per costruire un unico scenario culturale da cui tutti possono attingere e di cui tutti siamo allo stesso tempo padri e figli, autori e fruitori e che trova il suo momento di sintesi nella società, la società della conoscenza appunto, della cultura, della comunicazione e della informazione.

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