La degenerazione della vita politica italiana degli ultimi decenni è un fatto innegabile. La riprova è data dal crescente astensionismo dei cittadini nelle votazioni. Nel dominante clima di sfiducia non manca, però, chi invoca il lievito della cultura per rigenerare la politica nel tentativo di porre le basi per un futuro migliore. Il panorama generale, tuttavia, è davvero impressionante: sacche di povertà in pauroso aumento, debito pubblico ipertrofico, crollo della natalità, servizio sanitario nazionale in affanno di fronte alla carenza di personale e all’avanzata del settore privato, politiche scolastiche inadeguate, perdurante discriminazione di genere, disoccupazione in prevalenza femminile, perdita di incisività dei sindacati, depauperamento dei salari medio-bassi, difficoltà nel trovare un lavoro remunerativamente dignitoso, emigrazione giovanile e fuga dei laureati e dei “cervelli”, tutti fattori che aumentano il pessimismo collettivo sul futuro dell’Italia. Come se non bastasse, il contesto globale di catastrofe ambientale, mortifere ondate epidemiche, terrificanti guerre ancora in corso e tragici flussi migratori in aumento acuisce inevitabilmente il senso di frustrazione e di amaro scetticismo negli individui più sensibili. Perché un giovane dovrebbe avere fiducia in quegli adulti e quegli anziani che gli hanno consegnato un mondo così devastato, impoverito e problematico? Il suo sguardo si sposta allora dalla propria deludente realtà al panorama internazionale. Ed ecco profilarsi ai suoi occhi lo smodato egoismo di ristrette oligarchie finanziarie che, in nome del Dio denaro, governano la new economy senza preoccupazioni morali e sociali, assolutamente insensibili al futuro negato ai giovani e cinicamente indifferenti alle dittature, alle discriminazioni, allo sfruttamento, alla sottoalimentazione, alla fame e alla sete, a cui sono condannati interi popoli di vari continenti. È da più di mezzo secolo che in molti paesi del mondo si assiste a un grave schiacciamento della democrazia e a uno spaventoso allargamento del divario fra ricchi e poveri. Durante la crisi economica degli anni ’70 e ’80 del Novecento, spiega lo storico Eric Hobsbawm, «iniziò la spinta del neo-liberismo contro le politiche assistenziali e i sistemi “corporativi” di relazione industriale che avevano protetto considerevolmente le fasce più deboli dei lavoratori». A partire dagli anni ’70, «la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, politicamente appoggiati dagli USA, hanno persegui-to una politica che ha sistematicamente promosso l’ortodossia liberista, la libera impresa e il libero commercio a livello mondiale; un tipo di politica che ben si confà all’economia statunitense alla fine del secolo ventesimo […] ma che non necessariamente corrisponde ai bisogni del resto del mondo». Sulle premesse della teologia neoliberista il turbocapitalismo, con la sua crescita esplosiva e sfrenata, ha generato la crisi finanziaria ed economica mondiale del 2007-2008, con strascichi e intermittenti ricorsi (vedi i crolli della Credit Suisse, della Signature Bank e della Silicon Valley Bank, questi ultimi non propriamente paragonabili con l’apocalittico fallimento della Lehman Brothers del 2008, ma comunque favoriti dalla deregulation di Donald Trump). Di fronte a tale disastro un disoccupato, giovane o non più giovane che sia, cosa può farsene della cultura? Nulla, assolutamente nulla. Ad uscire da questa paralizzante empasse può forse aiutarci il filosofo Michel Foucault, che, richiamandosi al concetto nicciano di wirkliche Historie (Storia effettiva) opposta alla Storia tradizionale, afferma: «La storia sarà “effettiva” nella misura in cui introdurrà il discontinuo nel nostro stesso essere; dividerà i nostri sentimenti; drammatizzerà i nostri istinti […] Il sapere non è fatto per comprendere, è fatto per prendere posizione». Allora bisogna portare alle estreme conseguenze il concetto di cultura, interpretandola come controinformazione, come demistificazione delle falsità e delle semi-verità, in una lotta quotidiana e instancabile per la difesa e l’incremento della libertà e della democrazia, affidandola ad organi di stampa il meno possibile faziosi, ad associazioni e comunità inclusive e progressiste e soprattutto a una scuola pubblica laica modernamente potenziata, favorita da riformatori seri e lungimiranti e da insegnanti preparati e adeguatamente remunerati. Non dimentichiamo perciò la grande lezione di Gaetano Salvemini, che ha lasciato scritto: «La scuola – se è ben fatta – ci ha date le chiavi per aprire le serrature; ci ha date le bussole per dirigerci sul mare dei fatti, e per metterci in guardia contro le affermazioni poco attendibili o del tutto mendaci; ci ha dato il senso delle proporzioni e della prospettiva; ha preparato il nostro pensiero a ricevere via via i germi, che poi hanno fruttato; ha educato in noi il gusto e la disciplina dello studio; ci ha insegnato il modo di imparare per conto nostro, via via che se ne presentava il bisogno o l’opportunità». La scuola fatta bene, insomma, promuove l’autonomia intellettuale e un’autocultura germogliata da un sostrato di cultura generale “aperta”, cioè ancorata al passato ma dinamicamente dischiusa al futuro. Da questo punto di vista, aggiunge Salvemini, la cultura consiste «nell’abitudine dello sforzo tenace e penoso; nel bisogno delle idee logiche e chiare; nel gusto della iniziativa personale e critica; nella forza e nel coraggio di pensare con la nostra testa e di essere noi stessi; nella attitudine – insomma – di comportarci, innanzi a qualunque nuovo problema di pensiero o d’azione, come ignoranti, bensì, e bisognosi di rinnovare e rettificare continuamente le nostre conoscenze, ma capaci di rettamente volere, rapidamente deciderci, energicamente operare. […] La cultura è il pane dell’anima. E anch’essa non si trova bella e pronta nella culla: bisogna faticare soffrire sacrificarsi per essere degni di conquistarla, per essere capaci di conservarla». Con un simile patrimonio personale e in compagnia di individui affini in associazioni culturali, centri sociali, comitati civici e gruppi di lavoro, potrebbe diventare meno arduo l’impegno demistificatorio e democratico contro le storture, le esclusioni, le manipolazioni e le aberrazioni della politica di basso profilo e lo strapotere dei grandi poli finanziari, industriali e massmediatici. Questo impegno riuscirebbe vano se la scuola pubblica, aprendosi sempre più al dialogo, all’inclusione e alla creatività, non venisse migliorata e consolidata in modo da essere consegnata alle future generazioni come autentica fucina di libertà, democrazia e cultura, che aiuti i bambini e i ragazzi non solo a formarsi, ma anche a difendersi dalla profilazione dei browsers e dai pesanti condizionamenti dei social media. Ma anche in una prospettiva di graduale miglioramento della scuola, gli elettori, abbandonando l’astensionismo, saranno capaci di scegliere gli schieramenti meno sgangherati e i politici giusti, cioè disposti davvero a investire cospicue risorse a favore dei giovani nella protezione della salute, nell’assistenza sociale, nella pianificazione famigliare, nella cultura, nella ricerca scientifica e nell’istruzione? Un politico che si rispetti, oltre a una seria preparazione, dovrebbe avere tre qualità fondamentali. Ce lo suggerisce il sociologo Max Weber, che avverte: «Tre qualità possono dirsi sommamente decisive per l’uomo politico: passione [per la “causa”], senso di responsabilità, lungimiranza». La «mancanza di distacco » rispetto alle cose «è uno dei peccati mortali di qualsiasi uomo politico. […] L’uomo politico deve perciò soverchiare dentro di sé, giorno per giorno e ora per ora, un nemico assai frequente e ben troppo umano: la vanità comune a tutti, nemica mortale di ogni effettiva dedizione e di ogni “distanza”». Il distacco rispetto alle cose e a se stessi è indispensabile, perché ai livelli più alti la «politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso». Nel giugno del 1963 il grande antifascista e politico Ferruccio Parri, commemorando sul mensile Resistenza il decennale della morte di Dante Livio Bianco, ex comandante delle formazioni partigiane “Giustizia e Libertà” piemontesi, in un dialogo ideale con l’amico scomparso, gli chiedeva: «Oggi che cosa ci diresti, Livio, in questa melma di arrivismo parolaio, d’ipocrisia paludata, di opportunismo vendereccio, di ladrocinio sfrontato nel quale la società italiana si va impantanando?». Se da noi era così sconfortante la situazione politica e sociale all’epoca del miracolo economico italiano, cosa dovremmo dire di questi tempi calamitosi e dell’attuale screditatissima casta politica nostrana? Tutto il male possibile, senza sconti per nessuno. Non possiamo permetterci, tuttavia, che l’indignazione e lo sconforto paralizzino la nostra voglia di cambiamento. Allora non ci resta che rimboccarci le maniche e tornare ai posti di combattimento dell’impegno quotidiano, dell’analisi attenta e della controinformazione. Sicuramente in prima fila troveremo le insegnanti e gli insegnanti più motivati e gli intellettuali più coraggiosi. E non è poco. © Riproduzione riservata
Autore: Marco Ignazio de Santis