Coronavirus, procede la fase 3, tra incognite e speranze…
Eccoci: l’Italia è alle prese con il periodo di ‘convivenza’ con il virus. Convivenza, sì, perché i dati rivelano come si sia ancora lontani dalla risoluzione di una situazione di rischio che continua a infuriare in altri Paesi del mondo. Si pensi, per esempio, alle scene che i telegiornali trasmettono dall’America Latina, purtroppo nell’epicentro del dramma. Il 3 giugno, tra polemiche e timori, il via libera agli spostamenti tra regioni diverse, “secondo principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio epidemiologico effettivamente presente in dette aree”, darà il là a una più intensa mobilità, un “rischio calcolato” sulle quali conseguenze nessuno può divinare. Numerose sono le apprensioni, alla vigilia di questo nuovo passo nel cammino di contenimento della pandemia. Ben diversamente da quanto ha asserito Zangrillo, suscitando un corollario di polemiche, non sembra si possa elevare il peana contro un virus che “clinicamente non esiste più”. Di fatto, il Covid 19 circola ancora in Italia; il numero dei decessi è più contenuto, ma non insignificante e non bisogna dimenticare che tale miglioramento è il frutto del lockdown. Senz’altro il primo allentamento delle misure restrittive, avvenuto nel mese di maggio, non ha condotto a una riacutizzazione dell’epidemia e questo è un fattore positivo. È anche vero che ormai l’atmosfera che si respira, nella nostra città come in molte altre, è quella di liberazione da un incubo. Molta gente circola senza le mascherine protettive; adolescenti e giovani sembrano preda di un’euforia da “liberi tutti” che li induce a indulgere alle “movide” da cui metteva in guardia il presidente Conte. Li vedi assembrarsi o muoversi con una disinvoltura non consona a tempi come questi. Inutile nasconderlo (nessuno l’ha fatto), la situazione dell’Italia è migliorata, ma, se si riapre, è perché il cammino dell’economia del Paese, già duramente provata dai due mesi di chiusure, doveva necessariamente acquisire nuova linfa, per non continuare a ristagnare. Per quanto papa Francesco sostenga – e noi siamo con lui – che la salvaguardia delle persone, “tempio dello Spirito Santo”, debba aver precedenza sui calcoli economici (ed è la logica che ha ispirato il lockdown), purtroppo il benessere collettivo dipende anche dal “fattore economia”. Penso che il nostro motto, di questi tempi, debba essere “Festina lente”. Inutile illudersi che si possa ritornare immediatamente alla normalità. Il risveglio rischierebbe di essere troppo repentino e brusco. Il movimento tra regioni e stati potrà determinare in qualunque momento l’insorgere di nuovi focolai. È questo il motivo per cui credere che si possa vivere un’estate spensierata come quelle che l’hanno preceduta è non solo un’utopia, ma una deprecabile leggerezza. È del resto plausibile, com’è avvenuto per la prima ondata, che il virus non si annunci al suo primo comparire e possa riprendere a circolare senza essere riconosciuto, sino a quando il numero delle vittime tornerà ad attirare l’attenzione. Non è possibile pensare che tutte le manifestazioni culturali, politiche e religiose che hanno luogo abitualmente nel nostro Paese possano verificarsi serenamente in questo momento storico. Eppure, nell’ansia da ripresa (e laddove gli interessi economici in gioco risulteranno cogenti), non è detto che la logica del buon senso prevalga. Di certo non ha prevalso nei singoli all’inizio della pandemia, quando, anche tra voci autorevoli, v’era chi sosteneva che si trattava di poco più della consueta influenza; niente di cui preoccuparsi, insomma. Un altro problema del nostro Paese è, infatti, il narcisismo che induce tutti – gli scienziati purtroppo spesso non son stati da meno – a pontificare, spesso indulgendo al sentire comune, perché non v’è cosa più gradita all’uomo medio che udire ratificare dalla voce di un’autorità purchessia il proprio personalissimo punto di vista. Insomma, il timore che il nemico torni prima a serpeggiare in modo silente e poi a infuriare è tutt’altro che lontano. L’altra considerevole incognita sarà la ripresa delle attività didattiche in aula a settembre. È senz’altro auspicabile che ciò avvenga. La didattica a distanza è alienante per i docenti e priva i giovanissimi discenti del loro bisogno di socialità e della presenza costante dell’insegnante, che non può essere sostituita dai genitori né da una voce robotica proveniente da device. Non bisogna però dimenticare che ad essa non si sarebbe mai fatto ricorso se non fosse stato strettamente necessario. Quella DaD (Didattica a distanza) che non piace a nessuno ha garantito la salvaguardia di numerose vite. Inutile pertanto illudersi, a settembre, che sia possibile riaprire le porte dei nostri istituti soltanto perché si vuole farlo. In primo luogo, le classi pollaio, figlie di quelle stesse forze politiche che ora invocano – non dando prova di buona memoria – il diritto all’istruzione, saranno automaticamente un vettore dell’epidemia, qualora essa dovesse riacutizzarsi. Poco efficace ci sembra il ricorso a soluzioni ibride (metà studenti in aula e l’altra metà a seguire da casa, con le connessioni altalenanti che spesso gli istituti lamentano) o all’opzione dei quaranta minuti, che riduce, rischiando di renderlo inconcludente, il tempo scolastico e non elimina i rischi da assembramento. E poi si trascura che il virus non si trasmette solo attraverso l’interazione verbale, fattore che giustificherebbe la distanza. Che dire della trasmissione mediante contatto con superfici o oggetti? Potrebbero bastare il prestito di una penna, la condivisione degli spazi e persino l’atto di porgere e ricevere un libretto delle giustifiche. Insomma, per quanto questa soluzione non piaccia a nessuno, la DaD potrà essere l’unica via praticabile dinanzi a un’eventuale ripresentarsi dell’epidemia. Del resto, quale genitore di fanciulli di scuola primaria, di grazia, manderebbe a cuor leggero il proprio figlio in classe, in caso di diffusione del virus, quando si sa benissimo quanto i più piccoli siano restii al ferreo rispetto di norme igieniche e siano indotti naturalmente a portarsi le mani al viso o agli occhi (per trascurare il naso, parte del corpo che, come ci insegnano i petrarchisti, non è bene menzionare)? A tutto questo si aggiunga la preoccupazione per il fatto che l’epidemia sembra aver tirato fuori il peggio di noi stessi, allentato ogni inibizione e riacutizzato la cultura dell’odio, che purtroppo alcune forze politiche della nostra Italia tendono ad alimentare, con scarso senso civico. Figlie della crisi, e di questa rabbia che nessuno si preoccupa di celare, sono le minacce al ministro Azzolina e al governatore Fontana, azioni che fanno emergere come non mai il lato oscuro del Belpaese. Traendo le conclusioni di questo lungo e forse divagante ragionamento, potremo anche apparire fastidiosamente simili alla profetessa Cassandra, ma dobbiamo ribadire che non è il caso di allentare troppo la tensione. La lotta contro il Covid 19 è ben lontana dall’essere vinta. À la guerre comme à la guerre. © Riproduzione riservata