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Cifariello visto da Pirandello
15 luglio 2011

D C U L T al 22 aprile al 22 ottobre 1895 si tenne nella superba città lagunare la prima Esposizione Internazionale d’arte, cioè la prima Biennale di Venezia. Tra i pochi artisti europei espressamente invitati ci fu Filippo Cifariello, che inviò alla mostra il busto in bronzo del Fakiro. Per foggiare la testa del fachiro, Cifariello si era servito, come modello, della maschera in gesso di un uomo di colore acquistata a Parigi. Tale maschera era un getto in gesso ricavato alcuni anni prima dalla testa del cadavere di un moro lustrascarpe morto in un ospedale di Venezia. Il calco era stato eseguito, a scopo di studio, da Antonio Dal Zotto, dal 1879 professore di scultura all’Accademia di Belle Arti di Venezia e dal 1895 direttore della stessa accademia. Riconosciuta nel volto del Fakiro di Cifariello una copia della sua maschera, lo scultore Dal Zotto denunciò il fatto al Comitato dell’Esposizione, che di conseguenza rifiutò l’opera dell’artista molfettese, in quanto a suo avviso non plasmata direttamente dall’autore, ma formata dal calco a suo tempo eseguito sul cadavere dell’uomo di colore. Ne nacque subito un insistito clamore, il quale faceva vociferare ai facili calunniatori che Cifariello, calpestando i doveri dell’arte, se l’era cavata gettando in bronzo, in uno stampo ricavato dalla maschera, il Fakiro, limitandosi ad aggiungere di suo la nuca, il resto del busto e alcuni serpenti attorcigliati intorno al collo del moro. La grave accusa, che diffamava Cifariello come mistificatore abbassatosi agli artifici di un volgare formatore, amareggiò molto lo scultore molfettese e divise i critici e il pubblico in due folte schiere, una accusatoria e una difensiva. Tra i denigratori si accalcarono tutti gli invidiosi artisti napoletani che non erano stati invitati alla Biennale veneziana, memori di un’analoga accusa avanzata nel 1884 per la scultura Il ritorno da Piedigrotta e nel 1889 per la grande figura Ad majorem Dei gloriam. Sulla stampa italiana ed estera apparve, per la durata di circa mezzo anno, un carosello di articoli pro e contro l’artista pugliese. Uno degli interventi più velenosi fu mandato da Venezia dal critico Attilio Centelli al settimanale romano “Il Fanfulla della domenica”. Cifariello, reputando ingiuste le accuse, all’inizio, sia pure imbarazzato e immusonito per l’aria di sospetto e di scherno dei colleghi, partecipò alle feste offerte agli espositori e ai giornalisti, scandalizzando gl’intervenuti. Un giorno sul battello che riuniva gli artisti per visitare Chioggia, lo scultore notò il critico musicale e artistico Eugenio Checchi, che intendeva intervistarlo. Il critico, stringendogli un braccio, gli sussurrò all’orecchio: – A me puoi dirlo: hai veramente formato il fachiro? I colleghi competenti lo affermano –. Cifariello allora gli rispose: – Ma sì, ho formato dalla maschera del moro, che ritenevo unica, il busto del Fakiro, ma ho trasformato quella natura morta in opera viva ed espressiva. Perciò, se fui annoverato dal Comitato tra i pochi meritevoli d’invito, se la mia manifestazione era per patto espresso esclusa da ogni giudizio, l’aver escluso dalla mostra il mio bronzo è stato un atto ingiusto ed ingiurioso. E poi, non voglio nasconderti la verità: con quella testa volevo provare la mia scoperta di plasmare capolavori formando dal vero –. E Checchi di rimando: – Come dici? Tu hai trovato il modo tecnico di produrre dei capolavori plasmando dal vero? Così, se io volessi il mio busto, tu potresti farlo senza gettarmi sul viso la maschera? – – Naturalmente con i mezzi di mia invenzione –. Tu potresti così fare il mio ritratto? – Ma sì, ma sì, senza difficoltà –. – Allora restiamo intesi: io verrò a posare quando torneremo a Roma –, – Sta bene, a condizione che tu illustrerai con la tua penna con quale materia, con quale invenzione io riesco a produrre capolavori –. Quando Eugenio Checchi si recò nello studio romano di via Margutta per posare, si rese conto che Cifariello, per modellare la nuova opera, non usava altro che le nude dita, la comune creta e i soliti stecchi. Ammirato per i valori plastici del suo busto, Checchi scrisse sul “Fanfulla della domenica” tre articoli pieni di fine ironia, rendendo piena giustizia all’arte dello scultore molfettese. Cifariello, a sua volta, si cautelò prima sporgendo querela per diffamazione contro Attilio Centelli e poi plasmando in appena dieci giorni nel suo studio di Roma un Fakiro Risposta di piccole dimensioni. Alla testa aggiunse l’intero corpo del moro sia per tacitare i calunniatori sia per produrre una valida prova da portare in tribunale e soprattutto da collocare alla LXVI Esposizione degli Amatori e Cultori di Belle Arti in Roma (1895-1896). Tra i difensori di Cifariello, vi fu anche il critico Antonio Stella, che in un articolo pubblicato il 25 giugno 1895 dalla rivista romana “Vita italiana” sull’opera Fakiro tra l’altro scrisse: «Io che l’ho veduta nascere sul trespolo, dalla creta informe, e l’ho ammirata quando il cesello aveva dato al bronzo la morbidezza epidermica meravigliosa di cosa vivente, e con me tutti coloro che capiscono fin dove Cifariello può arrivare con l’arte sua, col suo ingegno, per la gran via della probità, un solo consiglio possiamo dargli. Il consiglio di ridersela, e tornare al suo lavoro prediletto, per rispondere ai rifiuti ingiustificati ed al cachettismo dei critici con delle nuove opere, degne di rimanere, insieme al Fakiro, veramente significative dell’attività geniale della scultura contemporanea». Dopo Stella, intervenendo in merito all’Esposizione di Belle Arti di Roma, anche Luigi Pirandello spezzò una lancia a favore di Cifariello. Scrivendo su “Il Giornale di Sicilia” del 20-21 settembre 1895, il ventottenne corrispondente siciliano fece questi apprezzamenti sul Fakiro Risposta, sul busto in terracotta di monsignor Daniele e su quello in gesso di Eugenio Checchi: «Notiamo […] nella terza sala, la Risposta del Cifariello, che richiama la curiosità e l’ammirazione di tutti i visitatori, e che è senza dubbio, insieme coi due ritratti, uno in terra cotta, l’altro in gesso, l’opera di scultura più pregevole dell’esposizione». Riprendendo a discettare sulle sculture dell’Esposizione romana, sulla stessa testata siciliana del 1°-2 novembre 1895 Pirandello aggiunse significativamente: «Ed eccoci innanzi all’opera di scultura, che attira più che tutte le altre la curiosità prima e subito dopo l’ammirazione dei visitatori. Sur una colonnina di legno circondata da una piccola ringhiera, è una scatola di vetro, come una gabbia, dentro alla quale a prima giunta, ognuno crede sia chiusa una scimmietta viva. È invece la mirabile spiritosissima Risposta di Filippo Cifariello alla commissione della Mostra internazionale di Venezia. Sarà ormai a conoscenza di tutti i lettori il risentimento suscitato dal rifiuto che la commissione di Venezia oppose alla presentazione del Fakiro del Cifariello, invitato ad esporre (si noti!) e non concorrente. Si disse che il giovine scultore di Molfetta aveva ricalcato la testa del suo Fakiro su la maschera notissima ricavata dal professor Dal Zotto da un moro lustrascarpe morto parecchi anni addietro a Venezia. «Il Cifariello contro il rifiuto motivato così, aveva mosso prima querela per calunnia e diffamazione; ha poi pensato di rispondere da par suo rimodellando in piccolo non solo la testa del moro ma tutto il corpo in comico difficilissimo atteggiamento. E ha fatto addirittura un miracolo di perfezione! Dicano ora i signori della commissione veneziana, se un artista che modella così ha bisogno di formar dal vero o di ricalcar le maniere altrui, o se invece la natura, d’ora in poi, per dar pelle, carne e ossa ai suoi mori non ancor nati non deve ricorrere allo studio di Filippo Cifariello, in via Margutta. Che dir poi dei due ritratti, quello in terracotta d’un monsignor, l’altro in gesso d’Eugenio Checchi? Non sono anch’essi altera e meravigliosa risposta, di cui l’arte ha da gloriarsi forse più che del piccolo moro entro la gabbia di vetro?». Dopo questa efficace difesa di Cifariello, Pirandello tornò a parlare dell’arte dello scultore molfettese sulla rivista “Natura ed Arte” del 1° agosto 1896 a proposito delle opere Eterna musa, Settembrina e Un corvo! viste all’esposizione permanente delle Belle Arti della Galleria Saporetti di Roma: «Altra riproduzione in bronzo d’opera assai pregevole è la mezza figura vendemmiale di Filippo Cifariello, un po’ trita nel busto e nelle mani che reggono un grappolo tra l’una e l’altra grazia del seno. Ricordiamo che il Cifariello ha trattato in seguito lo stesso soggetto in minor dimensione, dando però in compenso la figura intera, ma pure alterandone l’atteggiamento, che tuttavia qui mi par felicissimo e molto espressivo. […] La maggior parte delle rimanenti opere esposte nella galleria son riproduzioni più o meno felici di antichi lavori, come Il voto del Michetti o il Refugium peccatorum del Nono, o sono opere già note per precedenti esposizioni, come La serenata del Corelli, Il corvo del Cifariello, ecc.». In effetti Il corvo o Un corvo!, un antico lavoro che ebbe ben 120 riproduzioni in bronzo per le frequenti richieste, aveva partecipato tra l’altro alla Esposizione di Milano nel 1890. Quanto a Eterna musa, va aggiunto che era stata esposta nel 1885 alle mostre Napoli e Montecatini, mentre la Settembrina in argento, presentata all’Esposizione di Londra del 1892, era stata replicata in bronzo 30 volte.

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