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Ciclismo, lo “Sceriffo” Moser a Molfetta
22 febbraio 2003

MOLFETTA – 22.2.2003 A guardarlo bene non si può dar torto ai suoi vecchi compagni di corse, i quali gli appiopparono il nomignolo di “Sceriffo”. Francesco Moser da Paludigiolo, icona del ciclismo moderno, col suo fisico 52enne asciutto, capello bianco e accento trentino, è sceso a Molfetta ed ha incantato i presenti (tra cui il Sindaco Minervini) in una conferenza organizzata al Nettuno dal club locale del Panathlon International ed intitolata “Ciclismo sport per tutti”. Non certo da tutti sono le gesta di Moser (nella foto), “grande campione, anche di ciclismo”- tiene a sottolineare il presidente del Panathlon Oronzo Amato. Due record dell'ora a Città del Messico a distanza di dieci anni (1984-1994), collezionista principe di vittorie nelle corse (270), un trionfo al Giro del 1984, tre volte consecutive primo al traguardo nella durissima, leggendaria e fangosa Parigi-Rubaix ('78,'79,'80), maglia iridata in Venezuela nel 1977. Ha diviso l'Italia nel duello con Saronni come prima di lui aveva fatto Coppi con Bartali. Chi meglio di Moser, dunque, avrebbe potuto cimentarsi nel tentativo di rilanciare la cultura della bici a Molfetta, città dove di “due ruote” se ne vedono pure troppe ma tutte con la marmitta? Ripercorrendo la sua storia, la sua giovinezza passata nei campi a lavorare la terra (“non avevo bisogno di palestre”- dice), mentre già tre suoi fratelli (“eravamo dieci figli”) montavano in sella. Ha cominciato tardi, Francesco (“solo a diciotto anni, mentre oggi si organizzano gare per i ragazzini di sette anni”); è consapevole del sacrificio che richiede il “mestiere” del ciclista (“in carriera sono più le salite che le discese”); rispolvera la dimensione egoistica della passeggiata in bici (“spesso vado da solo per pensare e guardare il paesaggio”). Non è propriamente a suo agio nel tratteggiare il suo percorso di vita ma le sue frasi pesano più delle belle parole di qualsiasi dirigente del settore: “E' un momento difficile, forse qualcuno ce l'ha con noi. Imperversa la pratica del doping e gli sponsor, senza i quali il ciclismo non campa, rischiano di allontanarsi”. E proprio di questi giorni è la notizia della multa a Cipollini per aver condotto su una superstrada, in allenamento, un “mezzo non idoneo”. “Ai miei tempi percorrevo la strada che portava all'aeroporto di Fiumicino. Oggi ci sono molte più auto. Né le piste ciclabili, dove si incappa nella famigliola in gita, sono il massimo per i corridori agonisti”. Niente a che vedere, per carità, con le nostre “corsie d'emergenza”: le piste ciclabili nel Nord-Italia hanno una loro fisionomia e quando costeggiano la strada principale sono da essa separate da un metro di erbetta. Un errore, per Moser, è stato creare società dilettantistiche troppo grosse: così facendo chi non si trova in una di quelle non ha possibilità di emergere. Di qui la necessità di sostenere capillarmente il ciclismo e di marcare l'individualità: “L'ideale sarebbe costituire squadre di 5-6 corridori: le piccole società non scomparirebbero né sarebbero fagocitate da quelle più attrezzate”. Altri ricordi: “Ho corso con 40 gradi e sotto la pioggia. A Pescasseroli, durante una tappa della Tirreno-Adriatica, fummo bloccati dalla neve. Qualcuno piangeva”. “La bici dovevamo comperarcela noi e i primi tempi avevo solo due maglie per gareggiare”. Di moda, oggi, dalle sue parti, vanno le “Gran Fondo”: competizioni senza competizione; centinaia di appassionati che la domenica pedalano in compagnia. E lui, seicentomila chilometri nelle gambe, vi partecipa sempre. Eugenio Tatulli
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