di Ignazio Pansini
Nell'estate del 1872 si consumava il definitivo distacco di Carlo Cafiero dall'Internazionale Socialista egemonizzata da Carlo
Marx. Il quattro agosto di quell'anno si riuniva a Rimini la Conferenza Nazionale delle sezioni italiane, che può considerarsi l'atto costitutivo del movimento anarchico italiano e della sua organizzazione. La rottura con il Consiglio Generale di Londra è stata in genere attribuita alla crescente influenza di Bakunin sugli Internazionalisti italiani, a cominciare da Cafiero, Andrea Costa, ed Enrico Malatesta: andrebbero tuttavia ricordati almeno altri due motivi, uno di ordine organizzativo, l'altro teorico.
Da una parte Londra veniva accusata di centralismo, autoritarismo, e di non rispettare né accogliere le istanze delle diverse realtà nazionali; dall'altra si contestava il ruolo che lo stato avrebbe avuto nelle varie fasi della dinamica Rivoluzionaria: conservato per i marxisti, almeno in una prima fase; immediatamente abbattuto per gli anarchici. La gestione statale della società liberata dal capitale, ne avrebbe impedito comunque la trasformazione radicale, e riproposto inedite ma altrettanto feroci forme di potere oppressivo. Previsioni che ebbero purtroppo tragiche conferme novecentesche. Il quindici marzo del 1873 si riuniva a Bologna il secondo Congresso della Federazione Italiana: esso strutturò l'organizzazione anarchica italiana, che restò da allora praticamente immutata, istituì le Federazioni Regionali dotandole di ampie autonomie, e pose la questione dei tempi e dei modi dell'azione rivoluzionaria, non ulteriormente procrastinabile.
I libertari italiani ereditavano a Bologna da un mazzinianesimo ormai declinante il motto eroico della democrazia risorgimentale: “Pensiero ed Azione”. Cominciavano intanto i primi arresti e le prime persecuzioni poliziesche. Alla fine del '73 si costituiva il Comitato Italiano per la Rivoluzione Sociale, preposto alla organizzazione logistica e propagandistica delle imminenti sollevazioni: il primo Bollettino, importante per l'impostazione teorica generale, usciva nel gennaio dell'anno dopo. Nei mesi successivi la penuria e l'elevato costo dei viveri, le agitazioni sociali, scioperi e dimostrazioni verificatisi a macchia d'olio nella penisola, indussero i capi libertari a fissare la rivolta armata per l'estate, e precisamente per la prima decade di agosto. Cafiero, allora come in seguito, vendette parte delle sue proprietà in Barletta per finanziare l'insurrezione, che avrebbe avuto come centri Bologna, Firenze e Castel del Monte.
Nei primi due si sarebbero assaltate banche, prefetture, questure, caserme, prigioni, e formate barricate per contrastare la truppa; dal castello svevo sarebbe partita un'avanguardia di rivoluzionari per sollevare le campagne. Il centro operativo di quest'ultima azione sarebbe stato Molfetta, scelta per la sua posizione geografica, ma anche per la presenza di un ristretto ma combattivo nucleo di libertari, tra i quali si segnalavano Vincenzo Pappagallo, “pericoloso ed audacissimo”, Giuseppe Antonio Talamo, Bartolomeo Calò, Luigi Nisio, Francesco Nisco.
Il due agosto 1874 cinque casse di legno, con la dicitura “ferri vecchi”, giungono alla stazione di Molfetta. Vengono da Napoli, via Taranto, e sono state acquistate dal libertario Tommaso Schettini, amico di Malatesta: contengono un centinaio di vecchi fucili a pistone. Dopo essere state ritirate da un gruppo di giovani guidati da Talamo, vengono caricate su di un carro, trasportate a Terlizzi, e depositate temporaneamente nell'osteria di Paolo Vallarella. Il sette agosto Enrico Malatesta, ventunenne, comandante designato dell'azione, giunge a Molfetta, ed alloggia nella locanda di Luigi Nisio, che diventa il covo operativo del gruppo. Il giorno dopo, i fucili sono trasportati nella casa di campagna di Francesco Nisco, sita in contrada San Martino. Intanto la polizia, avuto sentore dei preparativi, effettua numerosi arresti. Nella notte fra il dieci e l'undici agosto il gruppo molfettese, ”insignito ognuno sul petto di coccarda rosso-nera”, parte al comando di Malatesta per il luogo di raccolta, fissato alle falde del castello.
Lasciamo all'indomito anarchico napoletano l'onore di narrare l'impresa. ”Più centinaia di congiurati avevan promesso di trovarsi a Castel del Monte; mi dirigo al convegno;ma al luogo dell'appuntamento, di centinaia che avevan giurato, ci troviamo in sei. Non importa; si apre la cassa delle armi…. è piena di vecchi fucili ad avancarica, a pistone; non fa niente, ci armiamo, e dichiariamo guerra all'esercito italiano. Battiamo la campagna per parecchi giorni cercando di trascinare i contadini, ma senza trovare eco.
Il secondo giorno abbiamo uno scontro con otto carabinieri che ci fanno fuoco addosso, credendoci moltissimi:tre giorni dopo ci accorgiamo di essere circondati dai soldati. Non c'è altro da fare; si seppelliscono i fucili e si decide di disperderci; io mi nascondo in un carro di fieno, e così riesco ad uscire dalla zona pericolosa”. Le simultanee insurrezioni di Firenze e Bologna ebbero analogo, disastroso risultato. Intanto centinaia di libertari, repubblicani, e persino ex garibaldini erano arrestati in tutta la penisola.
Seguì la celebrazione di quattro processi, a Roma, Firenze, Trani e Bologna: inutile dire che quanto non avevano potuto proclamare alle plebi affamate, ma “assopite”, gridarono gli anarchici da dietro le sbarre, suscitando spesso, a detta della stampa del tempo, “inauditi applausi tra il pubblico presente”.
Il dibattimento tranese si svolse dal primo al cinque agosto 1875, a conclusione di una complessa vicenda giudiziaria che aveva coinvolto i maggiori esponenti dell'Internazionalismo meridionale. Gli imputati, compresi i molfettesi, furono tutti assolti dalla giuria popolare, tra l'entusiasmo dei presenti; analoghe assoluzioni si ebbero negli altri processi.
E' bene ricordare che, in attesa del giudizio, molti avevano comunque scontato da uno a due anni di carcere duro preventivo. Diverse le motivazioni della evidente tendenza assolutoria: opportunità politica, pressione di parte dell'opinione pubblica, scarsa conoscenza della reale entità del fenomeno. D'altra parte, lo stesso giovane stato unitario era pur nato da una serie di atti “sovversivi”, per quanto egemonizzati dai moderati: molti dei magistrati che si trovarono a giudicate gli anarchici, avevano conosciuto le galere borboniche ed austriache.
I moti del 1874, cui seguirono tre anni dopo quelli del Matese, ugualmente falliti, furono ironicamente scherniti dalla Internazionale marxista, e nella storia del socialismo italiano sono indicati come esempio negativo di faciloneria, improvvisazione, assoluta ignoranza della realtà sociale.
In sede storiografica il giudizio è tuttavia più sfumato, depurato delle polemiche, e di un troppo facile senno di poi. Basterebbe accennare all'importanza che gli Internazionalisti italiani, per primi, attribuirono alla questione contadina, ritenuta come chiave di volta di una possibile rivoluzione meridionale.
Diverso è il giudizio che noi possiamo, e dobbiamo dare su chi, allora e in seguito, si dilettò a dubitare della moralità degli anarchici, definendoli depravati, pazzi e squilibrati, ridicolizzando la loro coerenza e le loro scelte, pagate di persona, e spesso in assoluta solitudine.
“Rivoluzione da operetta!”, chiamò Roberto Michels i moti del '74, ignaro che la nemesi lo avrebbe condotto dalla teorizzazione della rivoluzione sociale, all'apologia di Benito Mussolini.
Chi ha la vocazione a mutar casacca, dovrebbe badare a misurare le parole: prima del gran passo per prudenza, e dopo per decenza. Ma questa è una virtù che in genere gli manca.