Sono stato di recente particolarmente colpito da una riflessione di Luigino Bruni, scrittore e giornalista di professione. Chissà quante pagine nella sua vita lui non abbia scritto. Fiumi di inchiostro! Ma solo ora lui dice: “Ho incominciato ad imparare che scrivere non è una faccenda di grammatica e di sintassi. È un’attività dell’anima, di disciplina, un apprendistato all’arte della responsabilità etica della parola”1. Ed io questa responsabilità l’ho vissuta e condivisa con Marcello, compagno di viaggio, di un lungo viaggio che ci ha visto attraversare più volte la nostra regione e non solo, per far conoscere le parole di vita di don Tonino a tantissimi amici. Quanto tempo impiegato per questo obiettivo! E don Tonino ha continuato a dettare la nostra agenda di vita, a ritmare il nostro tempo, più di quanto non lo avesse già fatto quando era fisicamente con noi. Già, il tempo! Lui lo definiva “spazio dell’amore”: e noi questo spazio lo abbiamo riempito di parole e di silenzio, di progetti e di speranze, di sogni e di stupore. Don Tonino, maestro della parola, ha voluto sottoporre a revisione critica anche il suo linguaggio e ha stimolato gli altri a fare altrettanto, perché convinto che “l’adattamento al vocabolario del mondo, l’attenzione alla sua sintassi, lo studio della sua temperie culturale, l’omologazione del suo codice espressivo non vanno interpretati come cronolatria, ma sulla linea di quella fedeltà all’uomo di cui si parla tanto nei documenti della Chiesa”. Sapeva parlare, ma sapeva anche tacere, perché è il silenzio che genera la parola: anzi è il suo grembo e al tempo stesso è il suo cuore! È questione di sapienza! Diceva Ernesto Balducci che: “Avere la sapienza vuol dire spesso disimparare a parlare, rinunciare a chiacchierare, accettare il silenzio come luogo di comunicazione, come profondo momento di scambio”! E tu, caro Marcello, questo lo hai sempre saputo, perché hai amato il silenzio. In silenzio abbiamo vissuto la malattia 1 Bruni L., Confessioni di un non giornalista, in Zaccuri A., Voci del verbo avvenire, Avvenire, Vita e pensiero, Milano 2018. di don Tonino. Lo pensavamo immortale, lo vivevamo nella sua pienezza di vita, poi all’improvviso quella diagnosi: gli altri si affannavano, correvano, a volte anche chiacchieravano. La professione di medico è spesso crudele: ti mette dinnanzi agli occhi la realtà nuda e cruda, ti spegne la speranza! Noi l’arte medica la condividevamo, sapevamo che la malattia avrebbe fatto il suo corso, incurante di tutto, anche delle cure, sarebbe stata devastante e ce lo dicevamo senza parlare. Ma quel silenzio ci consentiva di cercare il senso delle cose. Il senso della vita e della morte, della gioia e del dolore, dell’inizio e della fine. Ma anche il senso di quella Fede che lui ci aveva trasmesso. Il senso della nostra Fede! Quante volte tuo (anzi, nostro!) fratello ci aveva detto che la Resurrezione del Signore è già interna alla sua passione e che la sua gloria già attraversa il suo dolore? Così è stato per lui. Ma solo così noi possiamo spiegare quel sentimento, quello stato d’animo, quelle improvvise lame di felicità che attraversavano il nostro cuore affranto e turbato quando ormai ci preparavamo al suo trapasso. In silenzio abbiamo vissuto molti altri momenti intensi della nostra vita: quando da paziente ti sottoponevi ad un intervento di chirurgia cardiaca e cercavi di scrutare nelle pieghe nel mio volto le mie paure e le mie certezze di cardiologo, ma anche quando, a ruoli invertiti, tu ginecologo, principe di una sala parto, mi hai consegnato tra le braccia, per tre volte, le mie creature appena prelevate dal grembo della mia adorata compagna di vita. Solo un luccichio dei tuoi occhi che mi aprivano il cuore ed una parola appena sussurrata: evviva! Cioè, come diceva don Tonino, che vivano, che abbiano vita! Grazie Marcello anche per questo, ma soprattutto della tua amicizia, grazie per avermi dato l’onore di servirti come tuo cardiologo di fiducia, grazie perché hai condiviso anche con me il progetto della Fondazione, passo dopo passo, giorno dopo giorno, progetto nato nel nostro cuore ancor prima che don Tonino ci lasciasse, perché nulla andasse perso e fosse dimenticato. Quanti incontri, quanta gente: piazze, scuole, biblioteche, chiese, sezioni di partito e di sindacato. Quanti amici vecchi e nuovi. E tutti felici di ascoltare, anzi di toccare (sic!) Marcello e Trifone, i fratelli di don Tonino! E tu a ricordare, innanzitutto, che tuo fratello era un uomo, come tutti, e che le radici della sua fede si erano fortificate in famiglia, dove era cresciuto e si era educato. È lì che in don Tonino è nato il germe della nonviolenza. È in famiglia che ha iniziato a sperimentare che la nonviolenza, come dice Thomas Merton, è un dinamismo di crescita paziente e segreta, nella convinzione che dai semi più piccoli, più deboli e più insignificanti possano crescere gli alberi più grandi. Sempre in silenzio attraversammo con Trifone le strade di Roma per raggiungere il nostro albergo, all’uscita da Santa Marta, dopo aver incontrato papa Francesco quel 14 novembre del 2013. Ma fosti proprio tu, all’improvviso, a interrompere i nostri pensieri segreti dicendo a me e a Trifone: “Prima o poi questo Papa verrà sulla tomba di Tonino!”. Fummo colti da stupore per la tua affermazione quasi quanto alla notizia, cinque anni dopo, dell’avverarsi di quella profezia. Non so ancora se questa tua capacità di abitare il futuro ti appartenga per intero o se invece in parte sia dovuta all’empatia che tu vivi con l’amato pastore. So però che questo è uno dei motivi che mi predispone sempre ad ascoltarti con attenzione particolare. Ed accanto a questo mi ha sempre affascinato quel tuo disincanto che ti fa prendere le distanze da tutto ciò che appare, da quanti si propongono come i vincitori della storia. Sì, quel tuo dissenso, quasi aprioristico, verso tutto ciò che è costituito, verso l’ordine nella nostra società: quasi a ricordare che dove c’è l’ordine spesso manca la grazia, che una cosa è la cultura altra cosa è la sapienza, perché solo la prima è corrosa dal tempo. La cultura spesso ci colloca tra i primi posti e crea una graduatoria tra gli uomini. La sapienza appartiene a quanti vedono gli ultimi portatori della salvezza. Non di un mondo altro ma del nostro mondo. Questa la lezione che tuo fratello ci ha lasciato. Di essa ci hai detto che non dobbiamo essere solo custodi, ma dobbiamo anche cercare di essere eredi. Sii certo, caro Marcello, che continuerò a dedicarmi con passione a questo impegno che insieme a Trifone e a tanti amici abbiamo partorito: altre pagine come queste insieme scriveremo certi, però, che “la parola scritta è seconda, perché prima c’è il dono di una voce, di una parola, di uno spirito”2. Giancarlo Piccinni