Carmela
Il racconto
“Ciao, Mara:” Guardo perplessa la donna che mi ha salutata dall’uscio di una stanza a pianterreno, così mi chiamano solo i miei genitori, i miei fratelli e un paio di altre persone che mi vogliono bene. Stento a riconoscerla, poi sorride ed è il sorriso inconfondibile di Carmela. Non la vedevo da anni ed è cambiata tanto, della ragazzina esile di un tempo non c’è più nulla se non i grandi, liquidi occhi neri e il sorriso dolce delle labbra rosse e tumide. È ingrassata, ha fili bianchi nei capelli e un’aria dimessa e rassegnata ma serena, come di chi è finito comunque in porto: “…come quei che con lena affannata uscito fuor del pelago alla riva si volge all’acqua perigliosa e guata”. Dante mi soccorre, non si potrebbe descriverla meglio. Mi avvicino, ci abbracciamo. “Come mai sei qui?”, chiedo. “Abito qui con mio figlio, ha finito il servizio militare e stiamo insieme”. Povera Carmela! Da quale pelago di dolore, di abiezione, di follia è venuta fuori. “Mamma come sta? – le chiedo – e quel tuo uomo, siete ancora insieme?” “Mamma non sta bene, ti pensa sempre, valla a trovare. No, non sto più con quel vecchio – dice con aria di sufficienza – che ci stavo a fare… i suoi figli non mi volevano e poi lui ha avuto un ictùs e sta paralizzato, vive con uno dei suoi figli”. Detto così anche l’ictùs diventa un fatto comico, quasi banale. Rinuncio ad indagare oltre, ma quell’uomo lì mi era sembrato una brava persona, aveva trent’anni più di lei ma le aveva messo su una casetta decorosa e la difendeva dagli altri e soprattutto da se stessa quando non stava in una casa di cura per le malattie mentali dove doveva essere ricoverata ogni tanto. Era venuto con lei a trovarmi, un bell’uomo attempato, sembrava che fosse venuto a chiedere a me la sua mano, era venuta anche la madre a presentarmi questa specie di genero che aveva più o meno la sua età. L’uomo mi fa una buona impressione, si esprime correttamente, decoroso nel vestire e con una pacata dignità di modi, lei veste in modo semplice ma accurato, parla pochissimo, ogni tanto sorride. Quando vanno via ripenso all’ultima volta che ho visto Carmela, anni prima, ero seduta su una panchina della Villa, così chiamiamo i giardini pubblici, ci avevo portato il mio nipotino che tenevo d’occhio mentre giocava con una palla e vicino a me era seduto un uomo che badava anche lui ad un bambino, mi sembra un uomo di mare, scambiamo qualche parola. “È suo figlio?”, mi chiede. “No, è mio nipote, figlio di mia sorella”, dico con orgoglio materno. Nel frattempo ad una estremità del diametro dell’ampio slargo della Villa vediamo avanzare una giovane donna: tacchi alti e doppi, gonna cortissima che mette in penosa evidenza le sue grosse cosce e i polpacci robusti, maglietta scollata e aderentissima, labbra violentemente dipinte, la segue un nugolo di ragazzi che la dileggiano e lei risponde un po’ ridendo e un po’ ricambiando oscenità. “Ciao, Mara”, grida con fare provocatorio quando mi scorge. “Ciao, Carmela! – rispondo con voce forte e chiara – è una mia amica – spiego all’uomo che mi guarda sbalordito, ho un’aria irrimediabilmente perbene – ora le racconto la storia di questa mia amica, se si ferma ancora un po’”. Annuisce frastornato. Gli racconto dell’infanzia di Carmela, di come il padre, quando era infuriato, la lanciasse in aria e la facesse ricadere sul letto e spesso per terra, come un fagotto di stracci, della sua adolescenza sacrificata, soprattutto durante le assenze forzate della madre, sempre malata, del suo matrimonio. “Si è sposata giovanissima con un mascalzone, che dopo averle fatto fare diversi figli, l’ha buttata fuori di casa quando lei ha cominciato a non ragionare più. I figli in istituto e lei dalla madre, poi ha cominciato a entrare e uscire dal manicomio (c’erano ancora, allora), elettroshock, camicia di forza, la rimandano a casa e poi si ricomincia”. L’uomo ha gli occhi lucidi, forse anche lui pensa alla bambina dai grandi occhi neri e tristi che è ancora dentro Carmela. “Avevo sentito tante cose su di lei, mi avevano detto che fa tante cose da pazza, ma ora le dico che se la incontro ancora, e mi capita, la difendo io se tentano di molestarla”. “Grazie”, gli rispondo tendendogli la mano. Ciascuno di noi prende il suo piccolino per mano e si dirige in direzione opposta. La manina che stringo nella mia scioglie il gelo che ho dentro. Ho rivisto Carmela stamattina, era sulla porta. Mi ha salutata nel suo solito modo, ciao Mara, e mi sono fermata a parlare con lei. Poi accenna al figlio con il quale ora vive. “Hai altri figli?”, le chiedo, perché ricordo che di gravidanze ne ha avuto diverse. “Ho una figlia femmina, quando mio figlio si sposa andrò a vivere con lei, ma di figli ne ho fatti otto, mi restano solo questi due, gli altri il padre li ha venduti… – (devo aver capito male) – per un milione l’uno, quel pazzo di mio marito! Però li vedo sempre i miei figli, sono tutti affidati bene, loro non sanno che sono la madre, ma io li vedo passare e sto tranquilla”. Si è levato un vento freddo: “Si avvicina la Settimana Santa. Il vento si lamenta con la Madonna”, dice Carmela a voce bassa. C’è un limite al dolore? Quando raggiungo il mio studio non riesco a togliermi dalla testa il mio assurdo colloquio con Carmela, se fosse frutto della sua mente instabile quello che mi ha detto? Poi ricordo la tranquilla disperazione dei suoi occhi… e se fosse vero? Ascolto quasi sempre musica mentre lavoro, c’è già una cassetta nel registratore, è Haydn, “Le ultime sette parole di Cristo sulla Croce: Pater dimitte illis quia nesciunt quid faciunt”. Lo ascolto mentre dipingo, ed è come se pregassi. © Riproduzione riservata