Carlo Mezzabarba
Gli hanno ucciso il padre. Diversi anni fa. In una carrozzeria di periferia. Un regolamento di conti, un’esecuzione velocissima, con tanto di colpevoli incriminati e mandati a marcire in carcere. Il prete della chiesa di periferia conosceva bene gli aguzzini di suo padre. Carlo era bambino e non capiva il segreto confessionale. Da quei giorni era cambiato qualcosa. Carlo vedeva il mondo diviso a metà. La notte ed il giorno. I buoni e i cattivi, il bianco ed il nero. Crescendo l’ha voluto dire a tutti nel suo piccolo paese di periferia e così ha deciso di portare la sua lunga barba, divisa a metà, diventando per tutti: Carlo Mezzabarba! Un ragazzone alto e muscoloso. Carlo crede in Dio. Prega più volte al giorno, ma di notte quando si affastellano i fantasmi, gli risulta un po’ difficile appenderli al gancio dei ricordi e così prende le sue caramelle, così le chiama, e s’addormenta. È un eroe capovolto. Non è difficile volergli bene. Carlo stringe le mani a tutti, ama i bambini. Gioca sempre con loro. Un giorno Carlo Mezzabarba si è innamorato. Pensa d’essere un vigile urbano, senza mai aver fatto il concorso. Mentre dirigeva il traffico impunemente proprio al crocicchio più importante del paese, con tanto di gesti tecnici rubacchiati ai veri vigili, ha adocchiato la sua Dulcinea. Una barista, capelli rossi con chignon, occhi verdi, sulla trentina. Gli è passata di fianco mentre sulla cassettina di frutta, lui faceva il semaforo. Rosso, giallo e… «Cazzo!». È rimasto sospeso, per una trentina di secondi, l’unico fischio che si è sentito nell’aria era quello del suo cuore. Lì, al centro di quella moltitudine insulsa di gente che speronava le ore, lui si sentiva così forte e grande, al passaggio di quella che era diventata nell’arco di un secondo la sua musa, la sua Dea, la sua rosa ardita. Come un vero don Chisciotte si è fatto coraggio ed ha iniziato a parlare col suo mulino a vento chiedendole se poteva avere un caffè, dopotutto se lo meritava per aver diretto il traffico così bene questa mattina. E Dulcinea gli ha sorriso. Signori, voi non sapete cosa possa significare un sorriso. Ve lo ricordate ancora il sorriso fugace di un passante incognito, ora che vediamo solo volti imbustati in mascherine? Quel sorriso per Carlo Mezzabarba è stato un testamento, un giuramento, una dichiarazione cavalleresca d’amore. Da allora tutti i giorni Carlo Mezzabarba, con cimiero in testa, durlindana al fianco e lancia medioevale, è andato a stringere le mani alla sua Dulcinea. Un gesto semplice per noi che non vediamo oltre il nostro naso che dura un solo attimo; un tempo che sa d’eternità per uno schizofrenico. Ogni santo giorno, da Carnevale a Carnevale, per un anno, Carlo è andato a riscuotere la sua dose d’amore. «Eccomi bella! Son qui!» ogni giorno le ha detto… «dammi le mani, un bacio e via!». Ogni giorno, per un anno così. E poi va a raccogliere qualche euro, cantando la canzone che gli passa per la testa. Qualche goliardo quest’anno a carnevale gli ha fatto un regalo. La divisa di un vigile urbano. Un abito di carnevale con tanto di mostrine, berretto e guanti. Non sapete che gioia per Carlo Mezzabarba! «Mi hanno assunto!» ha urlato in giro. Ha fischiato tutto il giorno. Quest’anno è un anno strano. Lo sappiamo bene. Parlar di epidemia, di distanziamento sociale e lockdown è più o meno faticoso per gente “normale” che tenga alla propria salute. La propria e quella degli altri. Per Carlo Mezzabarba, che stringe mani per abitudine e professione, che lesina monete e abbracci, non è stato proprio facile capirlo. Il televisore del Bar quella mattina sputava sentenze dalle sei, e i cappucci si tingevano di macchioline dense come pece ad ogni passaggio del tg24. Erinni e lestrigoni, virologi e scienziati come arcane fattucchiere lo dicevano a gran voce: la prima zona rossa in Italia è stata contrassegnata. Bisogna tenersi a distanza. Non addensatevi, non stringetevi, evitate gli abbracci, non stringetevi le mani e lavatele continuamente! E Carlo Mezzabarba? Glielo avevano già detto in comunità. Ma lui forte e fiero, vigile urbano per affetto e per diletto doveva andare dalla sua Dulcinea. Mai come quella mattina sentiva il bisogno di tenerle le mani per quell’eterno attimo. «Carlo… per un po’ di tempo non posso salutarti come abbiamo sempre fatto», sono state le parole della sua Dea parlante. «Nessuno ora può stringere mani, senti, lo dicono gli scienziati alla tv!», ed è andata a servire ai tavoli già distanziati. Più forte di una pugnalata, più dirompente di un proiettile nel petto, più graffiante di una rosa bellissima e inviolabile. Carlo, montagna di muscoli, voleva piangere. Esce dal bar, e mette quel pianto nel suo fischietto e fischia, fischia a perdifiato per ore e ore. Come quegli uccelli che cantano prima di morire. Certo che spavalderia, che colpo basso!: «ma che le ho fatto!» pensava... «qualcuno non vuole che stiamo insieme» si tormentava. Giorno dopo giorno, la sua Dulcinea si rifiuta, ed il cuore gli diventa un mostro ferito nel petto. Ed il suo petto una prigione troppo fragile perché quel cuore non gli possa esplodere. Carlo ricorda bene il giorno della chiusura del bar. Il lunedì. «Ed invece oggi è mercoledì. Ci dev’essere qualcosa sotto!». È quello che pensa. «Nessuno più vuole star con me». «È un complotto, se anche in comunità ognuno se ne sta chiuso nella propria stanza, se i bambini non sono più in giro, se il bar è chiuso, come tanti altri negozi. Se non passa nessuna macchina. Se tutti portano le mascherine per non farsi riconoscere! Sì, è certo un complotto!», si struggeva. Un complotto con le sue fasi e le sue strategie. Qualcuno deve aver ordito una trama oscura per tener lontana la sua Dulcinea. È questo il suo teorema. Piano piano tutto il mondo gli diventa una carrozzeria, e lui lì bambino innocente a non sapere che fare. «Vogliono farmi credere che il mondo è cambiato!» pensa Carlo Mezzabarba; «è arrivata la fine del mondo!», «niente più vigili a vigilare? Basta coi pagliacci che fanno ridere i bambini? Ed allora andate tutti affanculo! Non ve lo meritate il vostro vigile, il vostro pagliaccio!» tribola ancora. Solitudine nera. Buio da tana animale. È domenica. In chiesa c’è un funerale. Quale migliore occasione per sentire il dolce suono di un abbraccio. Carlo Mezzabarba entra. Con sua sorpresa trova la cassa ed il morto. «Presto verranno i parenti» pensa, e così prende a raccontare alla salma un po’ di storie che possano divertirlo. La cosa bella dei pazzi è che nella loro mente tutto, davvero tutto è possibile. In chiesa non si vede ancora nessuno. Carlo Mezzabarba si avvicina e gli parla a lungo. Pensa di conoscerlo. Faceva il fornaio. Il velo non gli nasconde le mani annerite dal fumo. E non ha la mascherina il morto. Carlo non ci pensa due volte. È stanco. Gli ha raccontato di tutto, il morto ha perfino sorriso. Ed allora, come ha sempre fatto con Dulcinea, prende lui l’iniziativa, lo solleva dalla bara e lo stringe forte al petto. Un pianto dirompente. Le campane suonano a morto. Silenzio. Silenzio.