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Cappellini e ventagli Il racconto
15 febbraio 2013

Correva l’anno 1929, giorno 8 maggio. Nella chiesa Sant’Agostino di Giovinazzo venivano celebrate le nozze tra Maria e Michele; la sposa appartenente ad una famiglia di benestanti proprietari terrieri, lo sposo imprenditore edile, nato e vissuto nel vicino paese di Molfetta, sulle rive del mare Adriatico. Era un matrimonio partecipato da famiglie della buona borghesia delle due cittadine. Alla fine della cerimonia sedici carrozze erano in attesa ai piedi della scalinata che portava all’accesso in chiesa. Nella prima presero posto gli sposi. Maria indossava un abito della tonalità di un chiaro avano, freschi fiori di arancio ornavano i capelli dai quali scendeva un lungo velo a strascico del medesimo colore. Quell’abito era un’assoluta novità giacchè la madre di Giovanna – che aveva procreato otto figli, dei quali Maria era l’ultimogenita – e le sorelle avevano indossato per il proprio matrimonio abiti di colore intenso. Maria conservò il corpetto dell’abito della madre Giovanna che era di taffetà in tinta verde. La terzogenita, che portava il nome della nonna ma tutti la chiamavano Gianna, giocava “alla signora”, con quel corpetto durante la “controra” (nel Sud con questo termine vengono chiamate le prime ore del primo pomeriggio estivo). La bambina, nella veranda coperta da una fitta vegetazione di foglie d’uva, con relativi grappoli pendenti di acini non rotondi ma a forma di cornetto, giocava serena e contenta. In altri pomeriggi trascurava quel gioco e, immaginando di essere una famosa musicista , sedutasi ad uno sgabello, presso una persiana … suonava l’arpa! Dunque le carrozze erano sedici. Dietro quella degli sposi seguiva quella dei compari d’anello, Sancilio Angela e Cosmo, quindi quella del podestà Brudaglio e consorte, quella del consuocero Sallustio Cosmo e consorte, la quale era la seconda moglie da cui non ebbe figli. Dalla prima, Maria Lucia, morta dopo aver partorito due gemelle, decedute anch’esse nel giro di 40 giorni, aveva avuto 4 figli maschi. A questo proposito va ricordato quanto nonno Comso raccontava alla nuora Maria. Dopo aver partorito quattro maschi, Gino, Giacomo, Corrado e Michele, egli espresse alla moglie Lucia il desiderio di una figlia, addossando solo alla donna, secondo i pregiudizi del tempo, la responsabilità del sesso del nascituro se non fosse quello desiderato … altrimenti, aggiunse, ti mando via. Certo erano parole… solo parole. Quanto per la quinta volta la moglie rimase incinta… accadde quanto già scritto. Pertanto nonno Cosmo raccomandava di non pronunciare mai frasi di cui doversi pentire in seguito. Raccontava anche che riuscì a strappare dal guardiano del cimitero la possibilità di scoprire la bara e di contemplare il volto della sua adorata Maria Lucia, per un giorno ancora. Mamma Maria, chiamata mammina dai tre figli Cosmo, Lucia e Gianna, ricordava come il proprio padre Vincenzo Montaruli fosse simpatizzante di Gaetano Salvemini, lo storico eccelso cui Molfetta diede i natali, partito in volontario esilio, prima in Inghilterra poi negli USA, per sfuggire alle persecuzioni del regime fascista, mentre il nonno Sallustio appoggiava il candidato molfettese, il giolittiano Pansini, avversario politico di Salvemini. I due compassati e anziani consuoceri, quando si incontravano – nonno Vincenzo dalla bianca barba patriarcale, nonno Cosmo con i baffoni alla Umberto I – non impostavano mai discorso vertenti la politica. Si scambiavano galanterie, anche perché da Molfetta, a spese di casa Sallustio, partivano casse di pesce freschissimo e profumato di alghe verso casa Montaruli a Giovinazzo mentre dalla medesima arrivavano in casa Sallustio in Molfetta ceste ricolme di ottima frutta, tutte primizie di stagione coltivate nelle campagne Montaruli, nonché carri agricoli pieni di legna da ardere, per uso quotidiano. Il salotto di casa Sallustio era elegante e sontuoso; le tende damascate non solo ornavano le due finestre ma anche le due porte che si aprivano l’una sulla camera da letto dei genitori, l’altra nella grande stanza dei quattro ragazzi, Luigi che diventerà ingegnere e trascorrerà la sua vita a Roma, dove aveva compiuto gli studi universitari; Giacomo dottore in Economia e Commercio, maggiore della Marina Italiana, morto l’otto settembre 1943, investito dal camion guidato da un soldato americano ubriaco. Il terzo figlio Corrado, diplomatosi ragioniere a Napoli e Michele che preferì allo studio, dopo aver terminato l’ottava classe presso il seminario vescovile, seguire il padre sui cantieri. Mammina raccontava che, rimasta orfana di madre, diventò a poco a poco una preoccupazione per il padre Vincenzo, poiché era ancora nubile e non aveva nessuna intenzione di sposarsi. Ogni “partito” le venisse proposto, era da lei respinto. Aveva ormai compiuto 24 anni, età ritenuta piuttosto avanzata per una nubile bella e titolare di una dote invidiabile. Quando la famiglia Sallustio avanzò la candidatura dell’ultimogenito Michele, Vincenzo Montaruli si impose alla figlia, che alfine obbedì. Il fidanzamento durò circa nove mesi. Michele, ogni sera, smessi gli abiti del cantiere, azzimatosi ben bene, saliva sul solito treno che lo portava a Giovinazzo. Non mancavano le occasioni per portare doni alla fidanzata. Nel giorno di San Nicola, 6 dicembre, nel quale i bambini ricevono doni, anche le spose e le fidanzate usufruivano di questa gradevole tradizione. Tuttora al mattino di buon ora, le scale dei condomini risuonano di strilli di gioia dei bambini che si recano dai vari parenti dai quali sono stati avvertiti che san Nicola è passato anche da loro, durante la nottata. Michele in quell’occasione portò in dono un grosso pacco di confetti colorati. Maria lo aprì, ringraziò, sorrise e lo depositò sul tavolo. All’esortazione del fidanzato di cercare all’interno, Maria eseguì e tirò fuori un astuccio da gioielleria: conteneva uno splendido bracciale con brillanti e pietre di Francia. Santa, che era la sorella maggiore, sposata con prole, lasciava puntualmente la propria famiglia, ritornava alla casa del padre a fare il suo dovere di “guardiana” seduta tra i due fidanzati che avevano il permesso di guardarsi e, volendo, di parlarsi. Nel giorno delle nozze, terminata la festa, Santa, commossa, abbracciò la sorella Maria raccomandandole di ubbidire a Michele anche se fosse sembrato strano il suo comportamento e, ricordandole che il matrimonio è un sacramento , si allontanò. Maria che non aveva la minima idea della differenza tra maschio e femmina, subì un shock tremendo nella prima notte di nozze e fu necessario l’intervento autoritario del padre e soprattutto del confessore, il quale, Vangelo alla mano, le spiegava i doveri di una moglie. Dieci mesi dopo nacque il primogenito. Mammina raccontava di altri sgradevoli ricordi concernenti l’amicizia tra Sancilio e i Sallustio. Ricordava tra l’altro che Angela e Cosmo Sancilio avevano procreato molti figli 11 o 12. la primogenita, Francesca aveva sposato il medico Salvemini, il quale, prima che Michele e Maria partissero per il viaggio di nozze, aveva segnato l’itinerario. Prima tappa alla Basilica di Loreto, rispettando la religiosità della sposa quindi Roma, Firenze, Venezia, Napoli, Molfetta. Michele, quando la moglie raccontava ai figli del viaggio di nozze, s’inseriva ricordando che, essendo andati a visitare il Lido di Venezia, la sposa si scandalizzò nel constatare che in spiaggia, le signore indossavano costumi da bagno che lasciavano allo scoperto quasi tutte le cosce! Ritornando al giorno delle nozze, 8 maggio, le sedici carrozze trasferirono sposi e invitati a Molfetta, precisamente in via Bari, in un appartamento in cui gli sposi sarebbero vissuti fino al completamento dell’appartamento lussuoso che il nonno Cosmo stava completando nel palazzo in costruzione tra via M. D’Azeglio e via Germano. Le volte ricurve furono dipinte a mano: greche dorate e bordeaux ornavano quella del salotto; alberi di limoni s’incurvavano sulla volta della camera da pranzo; gigli e mimose allietavano la camera delle ragazze, Lucia e Gianna. Con particolare gioiosità mammina ricordava il matrimonio di Ada, sorella minore di Francesca, con il medico Roselli. Fu un matrimonio signorile e sontuoso ad un tempo. La migliore borghesia molfettese vi partecipò. Maria ci teneva a ricordare l’abito elegantissimo comprato dalla boutique Ciciriello in Bari. Era semplicissimo, nero lungo sino alle caviglie, dotato di una giacca a tre quarti le cui maniche erano orlate di ermellino. Il tutto si poteva constatare in una foto un tantino ingiallita in cui la sposa Ada sfoggiava, oltre alla sua bellezza ed all’eleganza dell’abito, una pettinatura ammirevole. I nerissimi capelli incorniciavano il viso e sfuggivano sulla fronte in un’onda elegantemente sensuale. Questi ricordi allietavano, a tratti, quegli anni in cui gioielli e benessere erano spariti. Michele era morto e Maria vestiva sempre di nero, con un foulard nero che copriva i capelli ben intrecciato sotto il mento. Si recava alla messa, faceva la spesa necessaria e si ritirava. Aveva interrotto ogni amicizia, aveva smesso i suoi elegantissimi amati cappellini, simboli del passato, depositandoli in un settore del grande armadio. La piccola Gianna, di nascosto, quando la mamma era fuori di casa, andava a guardarli, ne provava alcuni sul proprio capo, si ammirava nello specchio, respirando arie da… signora fatale. Nelle sue ricerche durante le assenze della madre trovò ance due ventagli. Su di uno, su sfondo marrone, era dipinto il volto di Greta Garbo. Ne rimase tanto colpita che in età adulta, comprò uno splendido libro di foto. Tutte riportavano il volto dell’attrice, la divina! L’altro ventaglio era più grande. Di raso bianco, orlato di piume bianche. Aprendolo si notava sgargiante una grande rosa rossa ricamata con fili di sera. Nella sua memoria si inseguivano quei giorni del passato. Di tenerezza e nostalgia si gonfiava il suo cuore grata a genitori e nonni per averle donato una fanciullezza sostanzialmente serena e felice.

Autore: Gianna Sallustio
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