Tra reazione e rivoluzione - II parte
Tra il 1861 ed il 1863 il brigantaggio meridionale fu l'episodio più importante di ribellismo nell'Italia moderna. Esso fu causato da motivi molteplici, che si accavallavano e a volte si contrapponevano. Da un lato, il brigantaggio fu il frutto della reazione clericale e filoborbonica, nella speranza di potere sollevare le popolazioni meridionali contro gli invasori piemontesi per restaurare il proprio potere. Infatti, una delle formule di arruolamento del brigante meridionale prevedeva il giuramento di fedeltà nei confronti di Pio IX e di Francesco II, contro il governo del “Lucifero” Vittorio Emanuele. Inoltre, lo stesso borbone inviò un suo emissario di fiducia, Don José Borjes, legittimista catalano, accreditandolo come il comandante supremo di tutte le truppe realiste in rivolta nell'Italia meridionale.
Dall'altro, il brigantaggio meridionale fu l'espressione di profonde istanze di emancipazione popolare, che, come si è visto, furono duramente frustate dagli stessi garibaldini. “L'intero Regno insorge contro il Piemonte ed ora gli 'oppressi' prendono le armi contro i 'liberatori' che di rimando scannano e fucilano per rendere felici i liberati”, ebbe a commentare un cronista dell'epoca. Ai primi gruppi di sbandati del disciolto esercito borbonico, agli ex galeotti e ai semplici avventurieri, si unirono folti gruppi di contadini spinti alla ribellione dalla ventata rivoluzionaria.
Il massimo sviluppo del brigantaggio fu tra il 1861 ed il 1862, quando Carmine Crocco (nella foto) capo assoluto di tutte le bande contadine si proclamò generale di re Francesco, iniziando una serie di scorrerie in Calabria, Puglia e Basilicata. Ovunque, egli fu accolto con entusiasmo dalle popolazioni locali che gli diedero man forte nell'incendiare municipi e case di proprietari e nel fare giustizia sommaria di quest'ultimi. Il clero meridionale appoggiava i briganti, in quanto essi apparivano i difensori della Chiesa contro le prevaricazioni dei liberali piemontesi, che avevano “osato” varare una legislazione di secolarizzazione dei beni ecclesiastici.
La guerra contro il brigantaggio proseguì cruentemente sino al 1865. Nel Mezzogiorno furono impegnati 120 soldati, quasi la metà dell'esercito nazionale, al comando di generali d'armata. Le vittime furono migliaia, così come gli arresti e le denunce comminate dai Tribunali militari. Una guerra guerreggiata tremenda e crudele, come appare anche dai toni dei contendenti, che si dequalificavano a vicenda accusandosi reciprocamente di essere alleati del diavolo e nemici dell'umanità. A titolo esemplificativo, basti ricordare da un lato le parole del giuramento del brigante: “Noi promettiamo anche, con l'aiuto di Dio, di rivendicare tutti i diritti della Santa Sede e di abbattere il lucifero infernale Vittorio Emanuele e i suoi complici”. Dall'altro, le parole del comandante della colonna mobile dell'Abruzzo e dell'Ascolano, il generale Ferdinando Pinelli: “Noi li annienteremo (i briganti, ndr), schiacceremo il sacerdotale vampiro che colle sozze labbra succhia da secoli il sangue della madre nostra, purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dalla immonda sua bava e da quelle ceneri sorgerà più rigogliosa la libertà anche per la nobile provincia ascolana”.
L'asprezza e la radicalità dei toni e degli scontri non occultò del tutto il tentativo di condurre analisi serie e rigorose circa le cause strutturali del fenomeno, con la coerente indicazione dei rimedi da apportare. Nel 1863 la Commissione d'inchiesta parlamentare recatasi a Napoli indicò tra i rimedi a lunga scadenza: “la diffusione dell'istruzione pubblica, l'affrancazione della terra, l'equa composizione delle questioni demaniali, la costruzione di strade, l'attivazione dei lavori pubblici”. Tuttavia, nel frattempo, la stessa Commissione d'inchiesta consigliava d'insistere con la legge marziale: la legge Pica del 1863.
Una delle conseguenze dirette della guerra al brigantaggio fu l'acuirsi delle reciproca diffidenza tra le “due Italie”. Negli anni successivi anche se il brigantaggio come movimento di massa era già declinato, non mancarono episodi di malcontento popolare contro i rappresentati dell'autorità governativa. Proteste, rivolte e ribellioni ora alimentate dalle forze reazionarie ora inquadrate dai primi gruppi anarchici e socialisti attraversarono il Meridione agrario e contadino, che aspettava invano la realizzazione dei rimedi indicati dalle Commissioni d'inchiesta, dai referti delle autorità governative locali e dai primi grandi meridionalisti.
Salvatore Lucchese