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Brigantaggio, una conversazione sulla “storia nascosta” all'Università Popolare di Molfetta
24 febbraio 2013

MOLFETTA - O briganti o emigranti. È questo il titolo dell’incontro, svoltosi all’Università Popolare Molfettese. Un relatore d’eccezione, il generale Eugenio D’amico, che è stato Capo Ufficio Relazioni esterne e Pubblica informazione presso il Comando della Terza Regione aerea, nonché curatore di svariati progetti editoriali per la Progress Communication s.r.l., ha riportato i presenti all’epoca del Risorgimento, individuando le origini del fenomeno del brigantaggio nella “piemontesizzazione” del Meridione.
«Nuie cumbattimo p’o Rre Burbone e ‘a terra è ‘a nostra e nun s’ava tuccà». Sono motti come questo che spiegano il vero spirito che animava i briganti, quando nei territori appartenuti al Regno delle Due Sicilie iniziò a farsi sentire l’ingerenza del governo dei Savoia. I fautori della mala unità, con il loro atteggiamento anticlericale e l’imposizione della leva obbligatoria, scatenarono tra gli ex sudditi del re Borbone degli autentici movimenti di resistenza armata, in nome di «unu Dio e unu Re», che non hanno nulla a che fare con la leggenda nera del banditismo anarcoide e della delinquenza-arretratezza dei meridionali, avallata dalla storiografia ufficiale per spiegare il fenomeno.  
Queste rivolte, come hanno mostrato le crude diapositive proiettate dal gen.le D’amico durante l’incontro, sono state soffocate nel sangue dai piemontesi, pronti ad estendere la definizione di brigante non solo ai renitenti, ma anche agli indifferenti al nuovo governo unitario, procedendo a fucilazioni di massa che non escludevano donne e bambini, per un totale di oltre ventitremila vittime, secondo fonti filoborboniche.
L’incontro non poteva non concludersi con la proiezione del film di Pasquale Squitieri «Li chiamarono...briganti!» del 1999. La toccante scena finale nella quale l’attrice Lina Sastri definisce il brigantaggio come «l’arte di campà senza credere cchiu a nisciuno», in effetti, all’unisono con il messaggio che Eugenio D’amico ha voluto trasmettere, sintetizza l’effetto penalizzante che l’Unità d’Italia ha avuto sul sud della penisola, producendo, assieme a quella del brigantaggio, altre piaghe che ancora oggi attendono di essere sanate, come l’emigrazione o l’atteggiamento di sfiducia verso lo Stato, visto come nemico.
 
© Riproduzione riservata
 
 
Autore: Giulia de Vincenzo
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Da circa 150 anni i testi scolastici e i media nazionali hanno diffuso notizie false e disinformazioni vergognose sulla “vera” storia dell'invasione militare del Regno delle Due Sicilie – allora Stato libero ed indipendente - da parte inizialmente dei cosiddetti “garibaldini”, una milizia raccogliticcia di mercenari al soldo del Primo Ministro Camillo Benso di Cavour e dei Savoia: un misto di giovani ingenui e romantici e soprattutto avanzi di galera di varie regioni e nazionalità. Successivamente “consolidata” dalle truppe piemontesi nel corso di parecchi anni, col ferro e col fuoco, precursori inconsci della feroce invasione italiana in Libia, mezzo secolo dopo, e di quelle nazifasciste nell'Europa Orientale. Crimini sociali, spoliazioni finanziarie, furti di ricchezze pubbliche e private, incarcerazioni massicce e massacri orrendi di paesi e villaggi furono compiuti ai danni di chi non osannava subito il “nuovo regno” degli “stranieri” Savoia (che parlavano francese e non italiano), diventando così automaticamente “un brigante”, famiglia e parenti compresi, come fossero ladri ed assassini locali, che pure non mancavano, e non patrioti borbonici che difendevano il proprio Stato. Ma di questa “verità” e della lunga, strenua quanto sanguinosa “Resistenza del Sud” non si è mai fatto cenno nei libri di storia nelle scuole italiane. E le menzogne continuano nell'indifferenza generale delle caste dei politici, del Ministero della Cultura, del Ministero dell'Istruzione e di quella del Vaticano, malgrado le numerose documentazioni incontrovertibili dell'epoca e degli studi e ricerche successivi compiuti da molti eminenti storici, scrittori e giornalisti. megliotardichemai.myblog.it/.../il-risorgimento-del-sud-150-anni-di.....

(Tratto da: TERRONI – Pino Aprile) - Noi non sappiamo chi fummo Ed è accaduto come gli ebrei travolti dall'Olocausto (il paragone non è esagerato; centinaia di migliaia, forse un milione di meridionali furono sterminati dalle truppe sabaude; da tredici a oltre venti milioni, secondo i conteggi, dovettero abbandonare la loro terra, in un secolo): molti scampati al lager cominciarono a domandarsi se il male che li aveva investiti non fosse in qualche modo meritato. Quando il danno è intollerabile, cercare una colpa, pur assurda, inesistente, che lo renda comprensibile (non giustificabile), diventa una via per non perdere la ragione. Lo storico Ettore Ciccotti parlò di “una specie di antisemitismo italiano” nei confronti degl'italiani del Sud. La Lega, espressione di un nazionalismo locale comico, se non fosse tragico, ne è la manifestazione più sincera. Ed è accaduto che i meridionali abbiano fatto propri i pregiudizi di cui erano oggetto. E che, per un processo d'inversione della colpa, la vittima si sia addossata quella del carnefice. Succede quando il dolore della colpa che ci si attribuisce e più tollerabile del male subito. Così, la resistenza all'invasore, agli stupri, alla perdita dei beni, della vita, dell'identità, del proprio paese, è divenuta “vergogna”. Solo ora, dopo un secolo e mezzo, le famiglie meridionali che ebbero guerriglieri e patrioti combattenti cominciano a recuperare l'orgoglio dei propri avi, tutti etichettati come “BRIGANTI” dall'aggressore (naturalmente, il fenomeno porta all'immeritato riscatto morale pure di chi era brigante e basta. Di malfattori ce ne furono altri: mafiosi arruolati da Garibaldi e piemontesi; ma vennero detti “BUONI ITALIANI”. Criminale non è quello che fai, ma per chi lo fai).
Il popolo fu il grande assente del Risorgimento. Contro tutti i tentativi che si sono fatti da retori e maestri di scuola di presentare il Risorgimento" "come il frutto d'una possente e unanime spinta di popolo", il Risorgimento fu opera quasi esclusiva di minoranze politicizzate: aristocrazia liberale, ceti medi intellettuali, gruppi artigiani. La grande maggioranza degli Italiani, milioni di contadini del Nord, del Centro, del Sud della penisola, restarono assenti; ovvero manifestarono la loro presenza col brigantaggio, come accadde nel Mezzogiorno d'Italia negli anni che seguirono all'unità e in Sicilia con le sollevazioni contadine già al momento stesso della spedizione dei Mille. Da questa mitizzazione è risultato che "varie generazioni di Italiani hanno imparato a scuola il Risorgimento quale avrebbe dovuto essere, invece che come è realmente stato." – Al momento del suo sbarco a Marsala e nel corso della sua avanzata attraverso la Sicilia e l'Italia meridionale Garibaldi era apparso alle masse contadine del Sud come un mitico liberatore e vendicatore delle loro sofferenze, quasi un Messia. Alcuni atti del governo provvisorio da lui insediato in Sicilia,m quali l'abolizione dell'esosa tassa sul macinato e il decreto relativo alla divisione dei beni comunali del 2 giugno, sembrarono incoraggiare queste speranze. Ma la delusione non doveva tardare a raggiungere: il 4 agosto, nella Ducea di Bronte, Nino Bixio, il fidato luogotenente del leggendario generale, reprimeva con arresto e fucilazioni in massa una delle tante agitazioni contadine che si erano accese in tutta la Sicilia in quei giorni di euforia e di speranza. La delusione delle masse popolari non si manifestò soltanto attraverso l'assottigliamento del flusso dei volontari nelle file garibaldine, ma anche con veri e propri episodi di rivolta. Nel settembre una sollevazione generale contadina con l'eccidio di 140 liberali divampò in Irpinia e fu domata solo dall'invio di una colonna garibaldina al comando dell'ungherese Turr. Erano le prime avvisaglie del brigantaggio, di quel fenomeno cioè di guerriglia contadina che rinsanguerà le campagne di buona parte dell'Italia meridionale nei primi anni di vita del nuovo Stato italiano. D'altra parte, se Garibaldi aveva deluso le masse contadine meridionali, egli non era riuscito neppure a tranquillizzare i ceti dei possidenti e dei galantuomini. Il ritorno alla normalità e il ristabilimento dell'ordine nelle campagne sarebbe stato assicurato assai meglio – era questa la loro ferma opinione – da un re legittimo e da un esercito regolare, quali erano quelli piemontesi, piuttosto che da un capopopolo improvvisatosi generale, circondato da una pericolosa accolta di agitatori. Sotto l'occhio vigile del nobile del luogo e del fattore i contadini meridionali andarono – si ricordi la descrizione efficacissima del plebiscito in un villaggio siciliano nel romanzo IL GATTOPARDO – a deporre nell'urna il loro sì all'unità d'Italia. Quest'ultima ereditava però, insieme a questi nuovo cittadini, anche le loro sofferenze e i loro rancori; ereditava le pesante e difficile “QUESTIONE MERIDIONALE” , non ancora completamente risolta.


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