Beniamino, il “buon governo” e la parola di Cambronne
Giovanni de Gennaro
Trascorsi i giorni della commozione, diventa doveroso delineare la personalità culturale e politica di Beniamino Finocchiaro. Al di là della aneddotica esibita dagli stessi che oggi lo esaltano e ieri lo hanno contestato e temuto, bandendo i toni retorici che Beniamino irrideva e disprezzava, occorre tracciare il percorso della sua intensa attività che costituisce una testimonianza eloquente del clima vissuto, molfettese e nazionale. Il primo e mai dimenticato maestro fu per Beniamino, Giacinto Panunzio, dal Ginnasio ed ininterrottamente per oltre vent'anni, interlocutore stimolante. E' difficile immaginare quanta differenza corresse tra la fresca, precisa, ordinata intelligenza del giovane liceale e la vis polemica, iconoclasta, del professore poco scolastico, che cuciva insieme il concretismo laico di Gaetano Salvemini, gli ideali del Risorgimento ed il socialismo umanitario, l'«esprit de finesse» di Biagio Pascal ed il modernismo dei cattolici liberali, il gusto della poesia; persino il sindacalismo di Sorel e la dottrina dello Stato del fratello Sergio, teorico del fascismo.
Nella aridità culturale degli ultimi anni del regime la consuetudine con maestri come Tommaso Fiore e Giacinto Panunzio, eccitava fame di idee in noi giovani, Beniamino, Enrico Panunzio e chi scrive. Ci ritrovammo insieme a Roma, a seguire studi letterari e filosofici e portavamo in tasca “L'Unità” di Salvemini e “La critica” di Benedetto Croce.
Beniamino optò significativamente per una tesi di laurea sugli scrittori machiavellisti del '600, maturando da quel momento – era il 1945 – un forte senso dello Stato, di Cavour e di Giolitti, che lo portò prima ad aderire al movimento liberale, poi, sotto l'influenza del pensiero salveminiano, al socialismo democratico nelle sue varie formazioni incontrandovi Vincenzo Calace. Con Salvemini, tornato in Italia, aveva avviato un rapporto di maestro e discepolo: gli mandava le sue prime ricerche e le riaveva con numerose cancellature di aggettivi e subordinate, per Salvemini non aggressivamente chiari.
Intanto conduceva con la moglie Elena Germano e pochi amici epiche campagne elettorali da posizioni di forte critica contro la Democrazia Cristiana ed il Partito Comunista («né forche né forchettoni»).
Compì la svolta decisiva seguendo Ferruccio Parri e Tristano Codignola nella “Unità popolare” che sorse per contestare nelle elezioni politiche del '53 la “legge truffa” sul premio di maggioranza che Salvemini con qualche riserva pure approvava. Fu una battaglia importante che aprì le prospettive della politica di centro-sinistra a Molfetta come nell'intero Paese.
Beniamino si trovò schierato a fianco del fronte socialcomunista che aveva tenacemente combattuto, pur animando correnti di opposizione nelle file liberali e socialdemocratiche. Dopo le elezioni aderì al Psi portandovi una forte istanza autonomistica. Ci trovammo insieme a batterci per l'apertura a sinistra della D.C. come auspicava Aldo Moro, sino alla formazione della Giunta Massari del 1962, uno dei primi esperimenti di centro-sinistra in Italia.
Quel governo fu il migliore che Molfetta abbia avuto. Beniamino vi impegnò tutta la sua intelligenza politica, richiamandosi alla prima amministrazione salveminiana di Francesco Picca del 1902. I problemi che ancora oggi sono affrontati furono posti allora dal 1963 al 1968: il risanamento delle finanze, la municipalizzazione dei servizi (Nettezza urbana, trasporti, dazio), il recupero della città vecchia, l'adesione all'Area di sviluppo industriale di Bari (ASI), il progetto di collegamento della diga foranea alla linea ferroviaria per lo sviluppo del porto, il Piano Regolatore Generale e lo sviluppo dell'edilizia pubblica e privata con la legge 167, l'efficienza e l'autonomia amministrativa. Quella esperienza gli valse l'elezione alla Camera nelle politiche del '63. Gli subentrò chi scrive dal '63 al '68. La sezione socialista molfettese ebbe in quegli anni l'adesione della migliore gioventù: Aldo Cormio, Domenico Bellifemine, Mario Andriani e tanti altri.
Alla Camera Beniamino portò la stessa carica. Si disse che l'asprezza dei suoi attacchi contro la proposta Moro di finanziamento della scuola confessionale aveva contribuito a far cadere il governo.
Emergevano intanto contro l'ipotesi di un centro-sinistra moderato, immobilista e conservatore, duramente contestato nelle piazze dal Pci, le tesi di Riccardo Lombardi per le riforme di struttura, tra cui “le questioni meridionali” analizzate da Beniamino nella sua rivista “Politica e Mezzogiorno”, edita a Molfetta.
Non era facile sostenere le posizioni di un laicismo riformatore, rigoroso e responsabile contro l'ideologismo statico del Pci e il moderatismo democristiano.
Così franavano parti consistenti del Psi verso posizioni comuniste, indebolendolo nella sua funzione equilibratrice del governo.
A Molfetta Beniamino s'impegno a contestare la deriva del clientelismo democristiano durante l'espansione edilizia e badò a formare una nuova base elettorale socialista. La sezione del Psi non ebbe più l'influenza dei vecchi salveminiani come Nicola Altamura, Sergio Azzollini, i fratelli Nuovo e perdette i suoi giovani, affascinati dal movimento studentesco dal '68 al '78: crebbe come partito di governo penetrando spregiudicatamente in nuovi strati sociali, fino a conquistare in consiglio comunale 11 seggi nel 1978.
Strappata l'amministrazione al monopolio democristiano, Beniamino negli 8 anni del suo sindacato (1975-1983) potè realizzare il suo ideale di “buon governo”. Molfetta deve alla sua intransigenza uno sviluppo urbanistico ordinato con palestre, giardini, edifici scolastici e asili infantili; ebbe con lui inizio il recupero del Borgo antico con la Sala dei Templari e Palazzo Giovene; fu progettata una politica culturale.
Furono per lui gli anni di massimo impegno con una straordinaria capacità di lavoro: presidente della Rai dal '75 al '77, presidente del consiglio regionale fino al 1975, senza trascurare il governo della città.
Eletto senatore nel 1983, si studia di diventare un esperto del bilancio dello Stato (confrontando i bilanci dei grandi Stati europei) e del debito pubblico, gestendo la Cassa depositi e prestiti ed assumendo l'incarico di sottosegretario al Tesoro. Avverte l'esigenza di sanare il deficit sempre più grave delle finanze per la politica demagogica del governo e la corruzione dilagante. Ormai è fuori delle manovre politiche del partito, poco docile alle strategie di Craxi. Nei difficili anni del terrorismo anche Craxi si accorge che il sistema politico dopo la profonda trasformazione della società e della economia italiana, ha bisogno di nuove riforme. Ma non sembrano disponibili né la Dc di De Mita né il Pci di Berlinguer, che non riescono a cogliere l'esigenza di un'alternativa riformista. Beniamino sembra fuori gioco: al governo Amato del 1987 non è riconfermato sottosegretario al Tesoro nonostante l'espressa richiesta del premier. La tempesta di Tangentopoli non lo tocca. Ma si è dovuto difendere accanitamente dall'accusa di aver aderito alla P2 di Licio Gelli.
Non c'è più spazio per sostenere la sua visione dell'equilibrio politico italiano con un governo di centro-sinistra convintamene riformatore, sottratto ai condizionamenti ideologici del neo-liberismo berlusconiano e dei rifondatori comunisti mescolati a sinistre diverse che non riescono a convogliare la diaspora cattolica e socialista.
A Molfetta non si sottrae a un ultimo tentativo di ricreare nella città del delitto Carnicella e del mercato della droga, una valida piattaforma politica: ancora risuona l'eco del suo richiamo al “buongoverno”.
Beniamino ha usato spesso la parola di Cambronne, riferita alla città e al partito che lo eleggevano. Era, al suo tipico modo, l'appello alla ragione e alla libertà critica per tener lontani i conformisti di destra, ma anche di sinistra, gli adulatori del potere senza coraggio, i profittatori che intendevano salirgli sulla spalla.
Ma, ha detto qualcuno, è difficile insegnare il coraggio a chi non l'ha.
Giovanni de Gennaro