Chi ha paura muore ogni giorno, è il titolo di un libro che racconta la storia di due uomini morti invece una volta sola, e diventati il simbolo di una lotta non ancora vinta, la lotta alla mafia. Si tratta della storia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino raccontata dal magistrato Giuseppe Ayala che ha presentato il suo libro alla libreria “Il Ghigno”, intervistato dal giornalista della “Gazzetta del Mezzogiorno” Felice de Sanctis, direttore di Quindici e dal magistrato Francesco Messina. Il libro oltre a parlare di mafia, è un viaggio nei sentimenti in cui Ayala ricorda il periodo trascorso gomito a gomito con Falcone e Borsellino, il periodo del Pool Antimafia, di cui anche lui fece parte, con l'intento di far conoscere alla gente oltre alla grande professionalità dei due magistrati, la loro personalità: «Volevo far conoscere queste due persone, a cui il libro è dedicato, che sono ricordati dall'opinione pubblica come dei simboli, ma che in realtà nessuno conosce. La loro più grande ricchezza era nell'umanità». E così il libro è pieno di una serie di episodi spesso esilaranti che danno un'idea di quello che doveva essere il carattere di questi due uomini, ma soprattutto della vita che conducevano, una vita rischiosa, nella quale il ricorso all'ironia era un modo per esorcizzare la paura. «Io fui scelto da Falcone come Pubblico Ministero nel Maxiprocesso per le mie doti oratorie - ricorda Ayala - quando finì la requisitoria che durò otto giorni Falcone mi fece molti complimenti, ma poi resosi conto di aver esagerato mi disse: “Giuseppe non montarti la testa, tu sei The Voice come Frank Sinatra, ma non scordarti che la canzone l'abbiamo scritta noi!». Eppure, nonostante queste note piacevoli, dal libro, così come dalle parole di Ayala, emergono scenari a dir poco inquietanti. Il magistrato spiega, senza troppi giri di parole, che sebbene di mafia non si sia mai parlato, almeno fino ai tempi di Falcone e Borsellino, essa è sempre esistita, e dai tempi dell'Unità d'Italia è una componente organica del potere italiano. Con il maxiprocesso tutto ciò che sulla mafia c'era da sapere è stato scoperto: la mafia, oltre ad essere un'organizzazione criminale, è una lobby che fa pressione sul potere politico per soddisfare i suoi interessi, come i sindacati, che fanno pressioni per i diritti dei lavoratori, o la Chiesa Cattolica. Il problema è che quando la mafia non ammazza, per il potere politico, considerato in modo trasversale, è come se non esistesse. La mafia non uccide più dal 1993, ma continua ad essere una potenza nel nostro territorio in molti settori: nel traffico di stupefacenti, nelle estorsioni, nell'edilizia, nella sanità, eppure viene ignorata oggi come nel passato. Se lo Stato vuole può vincere questa piaga, ma deve volerlo. «Il Pool Antimafia non è stato fermato dalla mafia, ma ben tre anni prima della morte di Falcone e Borsellino i magistrati erano stati messi nella condizione di non nuocere. Io ho assolto al dovere della verità con questo libro - ha detto Ayala - e sebbene sia stato considerato da molti un libro coraggioso non lo è, se lo fosse saremmo nei guai, raccontare la verità non dovrebbe essere qualcosa di coraggioso ma di assolutamente normale». E così Ayala non risparmia giudizi poco teneri nei confronti della “testa” della magistratura, come egli la definisce riferendosi al CSM, ne nei confronti della “coda” riferendosi a magistrati che soffrono di manie di protagonismo e che invalidano invece il lavoro di tanti magistrati corretti e responsabili che sono la maggior parte: «la giustizia italiana funziona malissimo e il parlamento non ha mai fatto nulla per riformarla, ogni riforma in questo senso è vissuta come una lotta tra una casta e l'altra». Anche in questo caso il giudizio del magistrato è trasversale «in sette anni di destra e sette di sinistra non si è fatto nulla, i magistrati sono considerati negativamente da tutti i parlamentari». Tuttavia nonostante la forte connivenza tra Stato e antistato, catture eccellenti ci sono state: secondo Ayala la cattura di Riina e stata anomala, così come il fatto che il suo covo non venne perquisito immediatamente ma solo dopo quindici giorni dall'arresto. Per quanto riguarda invece la cattura di Provenzano secondo il magistrato, egli aveva ormai esaurito la sua funzione, e venne arrestato sulle colline del Corleonese perché la rete di protezione che lo copriva si era inevitabilmente allentata. Molte sono state le ipotesi su chi avrebbe potuto prendere il suo posto a capo di Cosa Nostra: «molti giornalisti sostenevano che il candidato più probabile potesse essere Matteo Messina Denaro, uno dei più importanti latitanti ancora in circolazione, ma i giornalisti capiscono ben poco di mafia - spiega il magistrato - mai la mafia palermitana si farebbe guidare da un trapanese. Io mi immagino il nuovo Boss con vestiti di ottimo taglio, magari laureato e facente parte di qualche importante associazione culturale. La mafia si è fortemente imborghesita». Oltre a dare delucidazioni su queste eccellenti catture, Ayala tenta di dare una motivazione anche alla morte di Falcone e Borsellino, le cui cause secondo lui sono dissimili: «sull'omicidio di Falcone ho delle idee abbastanza chiare, è sicuramente un omicidio politico: lui muore il 23 maggio del 1992, il 25 ci sarebbero state le votazioni per nominare il Presidente della Repubblica in cui Giulio Andreotti era dato già per vincente poiché c'era stato un accordo tra la DC e il PDS, e anche io, che facevo parte allora del Partito Repubblicano, fui contattato per dare il mio voto a lui. Dopo tre ore dalla morte di Falcone la candidatura di Andreotti viene dichiarata caduta. Probabilmente Giovanni sarebbe stato ucciso comunque, ma io ormai credo poco alle coincidenze, sono del parere che qualcuno abbia voluto bloccare l'attuale Senatore a vita servendosi dell'aiuto della mafia. Sull'omicidio di Borsellino ci vedo meno chiaro. Secondo suo fratello, Salvatore Borsellino, che gli assomiglia in modo incredibile, quello di Paolo è un omicidio di Stato. Lui infatti non riesce a spiegarsi perché con tutti i controlli che c'erano in quel periodo a Palermo, una Fiat Cinquecento piena zeppa di tritolo fosse di fronte alla casa di sua madre, dove Paolo si recava con costanza, e perché nessun collaboratore di giustizia non abbia mai speso alcuna parola sul suo omicidio e invece su quello di Falcone si. Egli sostiene che se nella mafia ci sono stati dei collaboratori di giustizia, nei Servizi Segreti no. Secondo me l'omicidio di Borsellino, così come quello del Generale Dalla Chiesa, furono preventivi e intimidatori. Nel caso di Paolo lui stava per diventare Procuratore Nazionale Antimafia, Cosa Nostra previene». La realtà che viene descritta da Giuseppe Ayala, tra l'altro un vero e proprio sopravvissuto, è drammatica, disorienta chiunque: a prescindere da pochi eroi che hanno dato la vita per difendere la dignità e la vita stessa del nostro paese, dov'è il bene e dov'è il male, se lo Stato, invece di combattere il cancro che attanaglia l'Italia, gli tende la mano. Se lo Stato chiude gli occhi e finge di non vedere, se lo Stato fa affari con Cosa Nostra, qual è la via d'uscita. E tuttavia anche noi siamo responsabili di tutto ciò. Ormai viviamo in un mondo in cui tutto è globalizzato, tutto, tranne la cultura, e i fenomeni criminali esistono perché non c'è una percezione approfondita degli stessi, oltre che per fenomeni di connivenza. Spetta a noi informarci, capire, interpretare le informazioni spesso mistificate che ci vengono propinate. Bisogna cercare di abbandonare la paura, che, come ha sostenuto il magistrato Francesco Messina, inibisce la capacità di ragionamento, e dire anche dei no, costruttivi, per cercare di cambiare qualcosa, in primo luogo nel nostro modo di pensare e di guardare a fenomeni come quello mafioso.