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Appunti per un ripensamento della sinistra
15 gennaio 2021

La crisi generata dalla pandemia Covid19 rappresenta un’occasione per riflettere sulla crisi più generale del sistema non solo sanitario ma anche del nostro abituale sistema di idee e certezze. Idee e certezze anche e soprattutto del periodo anteriore la crisi, quando vivevamo in una “normalità” che oggi forse val la pena di interrogare e mettere in questione visto come ci siamo ritrovati inermi di fronte all’emergenza. Cosa significa, dunque, interrogarsi sulla “normalità” di prima del Covid? Significa indagare quella normalità per scoprirne le linee di debolezza poi disvelate dalla crisi pandemica, significa riflettere sulla rinnovata importanza del ruolo dello Stato e del settore pubblico che con la diffusione della pandemia ha riacquistato centralità. Tornare a questo tema in Italia e nell’Occidente soprattutto per la sua esangue sinistra non è facile. Negli ultimi trent’anni numerosi movimenti e soggettività politiche si sono imposte all’attenzione lasciando credere che ognivolta si trattasse dell’occasione per rigenerare la vita politica: ad es. dai movimenti civici nelle “cento città” italiane al movimento noglobal e pacifista di inizio millennio, dai “girotondi” al “popolo viola”, dai social forum alle esperienze di bilancio partecipato fino al movimento per l’“acqua bene comune”, tutte queste esperienze hanno condiviso le suggestioni dell’“ orizzontalismo”, della “partecipazione” e della “leggerezza” (organizzativa), reclamando l’esigibilità di diritti e chiamando in causa i temi della democrazia in rete e le nuove possibilità tecniche e politiche (dall’e-government all’e-democracy) nonché quello dei “beni comuni”, il tutto quasi sempre con un’azione politica “dal basso”, lasciando credere che tutto il male fosse nell’istituzione, nel potere, nella sovranità, in ogni forma di verticalismo. Una convinzione che spesso ha presentato singolari analogie con le teorie neoliberali e ha significato contemporaneamente la sottrazione, quando non la fuga, dalla sfera dello stato e dalle sue correlate responsabilità. Cosa significa, dunque, fare i conti con il rifiuto della politica intesa come trasformazione del modello economico e sociale? Significa fare i conti con il divorzio nella sinistra occidentale, e in quella italiana, con il tema del superamento del capitalismo. Dopo il 1989 la sinistra occidentale si è rassegnata a sottomettersi a un unico modello economicosociale fondato sulla competizione generalizzata e sulla privatizzazione di risorse e diritti collettivi, assegnando libertà al cittadino prevalentemente come consumatore. Certamente il passaggio al postfordismo ha reso “naturalmente” più difficile il compito per chi si prefiggeva il superamento del modello economico- sociale capitalistico, soprattutto in Occidente dove questo obiettivo si è rivelato non solo più lontano ma anche “indicibile”. Le trasformazioni postfordiste globali sono state viste per lo più come un fatto “oggettivo” mentre altri, nettamente in minoranza, le hanno lette come altrettanti passaggi di una lotta di classe compiuta dall’alto verso il basso. Ai “trent’anni gloriosi” del compromesso socialdemocratico sono seguiti così i trent’anni di lotta di classe neoliberista in cui le borghesie e i gruppi dominanti a livello internazionale hanno compiuto un salto di qualità, mentre le classi lavoratrici sono retrocesse da una consapevole identità a una percezione debole del proprio sé. Per dirla con Rosanvallon, «il cittadino si è trasformato in un consumatore politico sempre più esigente, rinunciando tacitamente ad essere il produttore partecipe del mondo comune. [...] La società civile al contrario è sempre più attiva e partecipe. [...] Ma l’idea di alternativa si è erosa. [...] Ormai un’attenzione civica disillusa ispira le questioni della trasparenza e della lotta contro ciò che la ostacola. 1». Insomma, dove un tempo c’era l’obiettivo dell’alternativa di società ora c’è la denuncia, dove c’era la lotta per la conquista del potere ora c’è la critica che dipinge il potere come male in sé, dove c’erano le casematte da cui organizzare l’assalto al cielo ora ci sono le multiformi espressioni della società civile, dove c’era il cittadino lavoratore che produceva il mondo e il suo senso ora c’è il cittadino consumatore geloso dei suoi diritti e pronto a ricorrere ad associazioni dei consumatori e tribunali per far valere i suoi diritti di cliente. Che vuol dire fare i conti con la crisi del Covid e con la “normalità” che lo ha preceduto per la sinistra? Vuol dire ripensare l’esangue sinistra occidentale, sia quella partitica sia quella dei tanti mille piccoli e grandi movimenti d’opinione, in un’altra luce e prospettiva, ripensando un nodo importante come quello dello Stato, del potere e dell’intervento pubblico nell’economia. In questi ultimi trent’anni di dominio neoliberale alcune concetti tradizionali della sinistra internazionalista sono stati abbandonati e ostracizzati, ad es. l’idea tradizionale di lotta con/per il potere statale e la sua conquista necessaria per la transizione a una società non capitalistica. La ricaduta di questo nuovo corso è l’esodo dalle classi socali di riferimen- 1 P. Rosanvallon, La politica nell’era della sfiducia, Castelvecchi, Roma 2012, p. 180-3 to che si organizzavano politicamente in sedi e luoghi politici portatori di identità, storia, tradizione e dunque anche forza culturale. Si sostituisce all’internazionalismo e all’antimperialismo – che poggiano su legami e alleanze tra stati rivoluzionari e popoli rivoluzionari, ognuno con i propri percorsi rivoluzionari e le proprie specificità socialiste – un cosmopolitismo antistatale e antinazionale di principio. Per cui la difesa di uno stato e l’importanza di costruire e difendere processi rivoluzionari statali diventano qualcosa di arretrato e nostalgico, quando non addirittura disfunzionale per la nuova sinistra “postmoderna” occidentale e per quella “social” all’italiana. Si appoggiano le cause di popoli senza stato (quali ad es. palestinesi, curdi) fintanto che questi rimangono privi di esso mentre si dimenticano le cause di popoli che uno stato rivoluzionario e socialista provano a costruirlo, tra mille sforzi e contraddizioni (quali ad es. cubani, cinesi, vietnamiti o venezuelani). Il rifiuto della tematizzazione dello stato, e dell’organizzazione necessaria per cimentarsi con la questione del potere statale da parte della sinistra occidentale, finisce per accomunare correnti alternative “di sinistra” con formulazioni estreme del neoliberismo “di destra” e infatti «nel far ricorso a un linguaggio più laico, l’odierno neoliberismo ama assumere talvolta movenze ribelli e persino anarchiche. È una tendenza che trova la sua espressione più compiuta nell’«anarco-capitalismo», che continua a proclamare il vecchio dogma conservatore dell’assoluta inviolabilità della proprietà privata e della sfera dell’economia, ma agitando la nuova e più seducente bandiera di un antistatalismo così radicale da sconfinare nell’anarchismo! E non a caso l’«anarco-capitalismo» ha preso piede soprattutto negli USA [...] dove da sempre i tentativi di introduzione dello Stato sociale sono bollati dal conservatorismo egemone quale sinonimo di dispotismo e totalitarismo2». Che significa fare i conti con questa sinistra occidentale sempre più inservibile, cieca e afasica ma ancora tronfia nelle sue inveterate convinzioni? Significa rendersi conto che il rifiuto del potere (e della complicata relazione con esso) contraddistingue lo sviluppo (o meglio il declino) della sinistra occidentale rispetto a quella orientale, laddove la prima continua a esercitarsi intellettualmente esclusivamente su limiti e contraddizioni di processi rivoluzionari e di costruzione del socialismo in cor- 2 D. Losurdo, La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, Carocci, Roma 2014, p. 257. so, in Asia (Cina, Vietnam) e non solo (ad es. Cuba o il Venezuela), mentre la seconda costruisce giorno dopo giorno – tra mille difficoltà e contraddizioni – la propria via di liberazione dall’imperialismo e da un modello economico e sociale di sfruttamento e impoverimento. Un modello che ha un nome – capitalismo – e che sta dimostrando oggi la sua inadeguatezza di fronte ad emergenze come quella del Covid come ci suggeriscono alcuni semplici dati in tabella. È comprensibile che la caduta dell’Urss infliggesse un duro colpo alla sinistra proveniente dalla storia del movimento operaio, eppure ancora oggi in Italia e nell’Occidente si ripropongono vie deboli di rinascita. Ricordiamo tutti la prima ondata di pandemia e il dramma della impreparazione generale un po’ di tutti i paesi, ebbene, mentre in Cina si costruivano nuovi ospedali nel giro di qualche settimana, qui in Italia, ancora nella seconda ondata, mancano i dispositivi di protezione individuali per gli operatori sanitari. Abbiamo ancora le immagini negli occhi dei medici cubani sbarcati in Piemonte e Lombardia durante la prima ondata per dare supporto alle nostre strutture sanitarie in emergenza, a quelle della sanità regionale lombarda ritenute poco prima, nella “normalità” pre-Covid, la migliore sanità d’Italia e d’Europa. Un piccolo stato come Cuba, da decenni sotto embargo da parte degli Stati Uniti e i suoi alleati, che corre in aiuto di un paese lontano come l’Italia, così come ha fatto in questo mezzo secolo con decine di altri paesi americani e africani. Il crollo dell’89 e la sua onda lunga gravano ancora sulla sinistra occidentale che rifiuta di guardare e pensare alla possibilità di altri modelli e di altri percorsi politici, un rifiuto che passa anche attraverso la rimozione di qualsiasi discorso consapevole sullo stato, sulla organizzazione del potere statale al servizio della comunità. Ma con questi rifiuti e rimozioni la sinistra italiana e occidentale si condanna a una crisi perpetua e ricorrenti e se nemmeno in un momento straordinario come questo si hanno le forze per rimettere in discussione pregiudizi e convinzioni che finora erano considerati sacri, allora, sarà pacifica la consunzione di questa sinistra. © Riproduzione riservata

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