Alla scoperta del legame tra Molfetta e Procida
Bisogna arrivare a Napoli. Scendere alla stazione centrale, sentire quel nodo alla gola che Napoli dà sempre, appena sei fuori cercare un taxi in mezzo ai clacson. E proseguire. Poi bisogna bere un caffè bollente da qualche parte, scendere giù al porto, all’imbarco traghetti, dietro ai palazzoni rossi e grigi della banchina. Da lì, bisogna andare. Lasciarsi la terraferma alle spalle, con quella sensazione liberatoria del traghetto che si allontana. Anche di poco, ma lascia l’Italia di tutti e ne cerca un’altra in miniatura, nascosta, l’Italia sparsa delle scogliere sul mare. Le isole del Golfo di Napoli stanno là davanti. Si passa da Bacoli, poi dal faro di Miseno. Nemmeno un’ora e il porto di Procida si disegna con dolcezza. Allo sbarco, si passa davanti al crocifisso di legno: il faro rosso, quello verde, i frangiflutti, i pescherecci, le barche a vela e il viavai di traghetti e di aliscafi. L’Isola di Arturo, di Elsa Morante, della spiaggia del Postino e delle cartoline di Massimo Troisi nei bar. Capitale della cultura 2022. Un incanto, al primo istante. Ma per trovare Molfetta nello scrigno, bisogna cercare ancora. E salire. Salire dal porto, girare a sinistra e camminare tra gli alberi di limoni, i cespugli di ortensie nei cortili, le pareti con i gelsomini. Seguire le piccole strade basolate, farsi largo tra i procidani allegri che fanno la spesa e i primi turisti di fine maggio che sfrecciano impacciati sulle bici elettriche o trascinano valigie, rossi in faccia della nuova estate. Arrivare in fondo, arrivare in cima. E in cima, davanti a una piazzetta con Capri davanti, scendere con fiducia le scale. Gradino dopo gradino la Corricella – il borgo dei pescatori di Procida – arriva, come un quadro che prende forma ad ogni passo. Un piccolo incantesimo naturale. Finalmente, una magia. Si disegna prima un gozzo, poi una lampara, poi una fila di barche da diporto. Intanto entra in scena il quartiere gigante della Torre Murata, sulla punta, con il carcere a picco sul mare. I gabbiani fanno festa, a decine. E poi, sulla sinistra, la fila di ristoranti, bar, casette a schiera di tutti i colori, chiesette, piccoli cortili, archi, le reti da pesca ad asciugare in piccoli mucchietti, negozi di souvenir. Le scale finiscono, la marina è una cartolina stampata di luce. Resta solo un angolo nascosto, sulla destra, quando si scende. Un segreto, nella pancia di un piccolo capannone bianco, che sembra una tenda, un accampamento, o meglio un presidio, con due barche davanti e davanti alle barche un padre e un figlio con le mani sul legno e, sempre, qualche amico attorno, in un piccolo viavai di cui, dall’altra parte della cartolina, chi scende dalla scalinata per la Corricella a stenti si accorge. Il padre si chiama Salvatore Di Candia, il figlio Rosario. Sono originari di Molfetta, come tanti abitanti di Procida. Una piccola colonia di cognomi nostri, un archivio di storie di gente di mare che dall’Adriatico è arrivata al Tirreno e ha messo su casa qui, nella piccola isola non troppo lontana. Salvatore e Rosario sono gli ultimi due maestri d’ascia di Procida. E arrivano da casa nostra. Come la famiglia Carabellese, che nel secolo scorso gestiva i cantieri più grandi dell’isola: alcuni magazzini nella zona del Crocifisso, dove oggi c’è la banchina per lo sbarco dei traghetti e prima la banchina nemmeno c’era e i cantieri Carabellese erano proprio così, a picco sul mare. Nei miei cinque giorni a Procida, Salvatore – il padre – mi ha raccontato per bene la sua storia, mentre riparava una barca maneggiando pezzi di legno – “pino pregiato, qualche volta mogano, dipende” – e barattoli di vernice. Non ha mai smesso di sorridermi con gli occhi e, alla fine delle nostre chiacchierate, di invitarmi “la prossima volta” a stare a casa sua, questa piccola Molfetta dall’altra parte del mare. Salvatore, com’è questa storia dei molfettesi a Procida? Me la spieghi bene? «Qui l’immigrazione molfettese è stata fortissima. Lo vedi dai cognomi, molti molfettesi hanno messo famiglia a Procida. Ha riguardato la pesca: sono arrivati a insegnare la pesca a strascico, alla gaetana. Ha riguardato i marittimi in generale, che si imbarcavano a Procida sulla grandi navi a vela – i clipper – o sulle petroliere, convocati dagli armatori napoletani o di Monte di Procida, dall’altra parte del Golfo. E ha riguardato i maestri d’ascia, come il mio bisnonno. Fu lui, maestro d’ascia, a trasferirsi a Procida». Costruiva navi nei cantieri procidani? «No, il mio bisnonno era maestro d’ascia a bordo. Prima sulle navi saliva il carpentiere. Si portava a bordo. Lui faceva questa vita qui. E sposò una procidana e nacque mio nonno». E tuo nonno era maestro d’ascia? «No, mio nonno era pescatore». E tuo padre era maestro d’ascia? «No (ride), nemmeno mio padre. Mio padre era marittimo. Si faceva grandi traversate. E io da piccolino me ne andavo sempre con lui a vedere com’erano fatte la barche. E rubavo il mestiere con gli occhi. Non il mestiere di mio padre, quello del bisnonno. Mi è sempre piaciuto fare il falegname, anche se ho studiato al nautico e mi sono diplomato da macchinista». Non ho capito: hai imparato a fare il falegname osservando i maestri d’ascia che riparavano le barche, ma hai studiato da macchinista. Com’è andata dopo il diploma al nautico? «Mi sono imbarcato, perché il sogno di tutti noi giovani di Procida era lavorare sulle petroliere. Si guadagnavano un sacco di soldi ed era un mestiere ambito. Era l’obiettivo di ogni ragazzo di Procida e pure il mio. Sono diventato un macchinista esperto. Prima sulle navi petroliere e poi, ai tempi di Ustica, lavoravo su una nave oceanografica». Ustica: come siamo arrivati al 27 giugno 1980? «Ero macchinista in seconda quella notte su una nave oceanografica. Ero nella zona dove accadde l’incidente. Fummo chiamati per i soccorsi. Accorremmo sul posto, ci fu chiesto di recuperare una parte dei resti dell’aereo e lo facemmo. Ho dovuto testimoniare anche al processo. In mare succede anche questo».