Se oggi fosse un giorno qualunque di quel periodo che noi chiamiamo 68 e che corrisponde agli anni che vanno dal 1967 al 1977, ciascuno di noi avrebbe sicuramente qualcosa di politico da fare. Un attacchinaggio notturno, un dibattito, una conferenza, un’assemblea, un volantinaggio, giornali da preparare o da distribuire, riunioni, incontri, scontri, ogni giorno si riempiva di qualcosa e la vita diventava così un’avventura. Bisognava stare attenti a non rispondere alle provocazioni, a rispondere punto per punto agli attacchi dei rappresentanti delle istituzioni, a non lasciarsi trascinare dall’entusiasmo, a non tralasciare di smascherare le contraddizioni del sistema Insomma il tempo non bastava mai. La politica regnava sovrana, persino il privato era politico e ogni problema era un problema politico. Sembrano lontani quei tempi, è davvero lo sono, sia perché sono passati 50 anni sia perché succedevano cose che oggi sarebbero impensabili. Chiamato a ricordare quei tempi, io sessantottino sessantenne non so da dove cominciare né con quali parole descrivere il fermento di quegli anni in cui, per dirne una, dopo un disco di Bob Dylan ne usciva uno dei Beatles e un 33 giri di De Andrè e Guccini precedeva di qualche settimana quello dei Rolling Stones. L’unica cosa da fare è raccontare, senza pretesa di rappresentare alcunché e anche senza nessun altra pretesa. Giusto una foto in bianco e nero sbiadita dal tempo. *** Quando lo incrociavo per strada lo salutavo con deferenza, ma non usciva dalla mia bocca un vero suono, non dicevo né salve né buona sera, né lui mi rispondeva. Anzi a dire la verità non saprei neanche dire quale era il suono della sua voce: i nostri sguardi si incrociavano ed io facevo un rapido movimento del capo, deferente. Il giudice mi fece accomodare su una seggiola, bassa, sotto la sua cattedra. Mi faceva domande semplici e ovvie, io rispondevo, ma poi mi resi conto che nei verbali non scrivevano esattamente quello che si diceva ma quello che concordava con il mio avvocato. Mi ricordo la frase cruciale col tono, il portamento e l’animosità del mio avvocato: “nulla so di quanto mi si addebita, mi proclamo innocente”. Mio padre mi disse in seguito che il giudice, ad un certo punto pronunciò la frase “se non fosse stato per la testimonianza del maresciallo, io le avrei rovinato la vita” o qualcosa del genere. Io non lo ricordo e per questo non posso essere sicuro che quella frase fu effettivamente pronunciata da quel giudice in quel processo, del resto di essere accusato per delle frasi mi sono francamente scocciato ma in verità il corpo del reato era chiaro: “Pinelli è stato assassinato e la magistratura ha coperto i veri assassini” la frase era scritta a chiare lettere e il volantino era stato distribuito durante la manifestazione di cui io avevo firmato la richiesta di autorizzazione ai carabinieri. Le cose andavano così in quel periodo, tornai a casa ad ora di pranzo e mi accorsi subito che regnava una agitazione di tipo insolito: non era in preparazione la solita paternale sul fatto che non studiavo o che andavo in giro fino a tardi la sera, non c’era aggressività nei miei confronti e c’era anche mio zio che telefonava concitatamente. Cominciarono col dirmi che sarei dovuto partire, andare da Maiò (un altro mio zio in odore di socialismo radicale che faceva il medico condotto in Veneto) se non si fosse chiarito subito a che cosa sarei potuto andare incontro con quella denuncia. Quale denuncia? Mi misero sotto gli occhi la Gazzetta del Mezzogiorno che in cronaca locale riportava la notizia della manifestazione del giorno prima in cui si diceva a chiare lettere che alcuni facinorosi non solo avevano fatto sfilare un migliaio di persone per le strade di Molfetta, non solo avevano tenuto un comizio in cui non erano mancate frasi oltraggiose, ma soprattutto (scripta manent) i suddetti facinorosi avevano distribuito un volantino in cui si diceva che Pinelli era stato assassinato e la magistratura aveva coperto i veri assassini. Tra i più facinorosi naturalmente c’ero io e, avendo firmato la richiesta di corteo, ero responsabile dell’anonimo volantino. Naturalmente non c’entravamo noi, gli anarchici organizzatori. Noi avevamo già fatto una riunione in cui, per proteggersi dalla valanga di denunce che ci pioveva addosso qualunque cosa facessimo, avevamo capito che non si doveva dire “Pinelli è stato assassinato e la magistratura ha coperto i veri assassini” ma “Pinelli è stato assassinato e alcuni magistrati hanno coperto i veri assassini”. Per vilipendio alla magistratura c’è l’arresto? Grazie a quel dubbio mio padre non mi rimproverava e a casa erano tutti agitati e mio zio faceva da controllore dei conflitti generazionali. Dovevo entrare in clandestinità? Sapevo che la colpa era degli anarchici spontaneisti del gruppo di Bari che non avevano nessuna regola e nessun senso di responsabilità nei confronti degli altri compagni e che erano venuti a distribuire quel volantino di cavolo (gli anarchici spontaneisti fanno sempre volantini di cavolo a differenza degli anarchici organizzatori) senza essersi neanche accorti che i carabinieri erano pronti a cogliere qualunque occasione per colpire i più organizzati e i più coscienti. Avevo anch’io, finalmente, la mia brava denuncia, non quella stupida diffida fattami dal professore di educazione fisica, ecco la testimonianza che ero considerato un nemico pericoloso, uno da colpire. Né ero orgoglioso e, forte dell’incoscienza dei miei vent’anni, neanche un po’ preoccupato. Spiegai ai miei che noi avevamo già, come organizzazione, una copertura legale poiché alcuni avvocati si erano già dichiarati disponibili a difenderci in caso di necessità senza percepire compensi e che quindi non avrei mai accettato di essere difeso da un avvocato che voleva solo farmi assolvere. Ero disposto a tutto e la fortuna volle che l’amico più caro di un altro mio zio di Bari (un socialista che non si è mai piegato alle lusinghe del potere e del denaro) era anche avvocato della nostra organizzazione, per cui andai gloriosamente dal compagno avvocato Leonida Laforgia come anarchico (organizzatore) accompagnato dai propri genitori in quanto parenti molto prossimi del suo migliore amico. Ma niente soldi, solo un quadro come regalo personale che mio zio avrebbe scelto per i miei. Quando andai da lui vidi per la prima volta un compagno non extra parlamentare, integrato nel sistema, ma sensibile alla nostra lotta e anche, come ebbi modo dì capire in seguito, al nostro coraggio e a nostra incoscienza che credo appartennero anche a lui durante tutta la sua vita. Mi fece la ramanzina, contando sulla presenza dei miei genitori (che secondo gli accordi presi non dovevano interferire con la linea politica della difesa) spiegando che sul volantino si sarebbe dovuto scrivere “alcuni magistrati” e non “la magistratura” e poi però decidemmo insieme che, per motivi politici, avrebbe sollevato l’eccezione di incostituzionalità per quello che era un reato di opinione, insieme a tanti altri avvocati che difendevano tanti altri come me, alcuni molto importanti, dalla repressione dello Stato, colpito da tanto entusiastico fiorire di ribellione. Ci volle del bello e del buono a mio zio per convincere i miei genitori che quel Leonida Laforgia non era uno della mia combriccola ma un rispettabile avvocato di provata fede socialista, perché mi volevano subito salvo e non con un carico penale pendente, ma alla fine così fu. Intanto però mi rodeva forte il fatto che fossi stato accusato per un volantino fatto proprio dai miei più acerrimi nemici politici: gli anarchici anti organizzatori che, con il loro modo di fare, svilivano la portata politica del progetto comunista anarchico e prestavano il fianco a chi, tra i vari gruppi che fecero il 68, dicevano che l’anarchia è bella ma per fare la rivoluzione ci voleva un partito e una classe dirigente. Noi volevamo un organizzazione senza strutture di potere ed eravamo in mezzo a due fuochi: i comunisti (che dopo ha rivoluzione ci avrebbero tolto di mezzo) e gli anarchici anti organizzatori che fino ad allora avrebbero screditato il nostro progetto. E pensare che alcuni di noi (non ricordo più chi fossero - Sofri docet -) avevano preparato un piccolo manifesto con la tecnica del linoleum, una specie di timbro di linoleum in cui erano stati scavati a mano i solchi fra le lettere, con la solita frase su Pinelli e la magistratura e l’avevano appiccicato dappertutto in provincia di Bari. Alcuni li appiccicarono anche a Molfetta, e si diceva che nella colla usata per affiggerli al muro fossero state rotte delle lampadine per fare in modo che, chi si fosse permesso di staccarti, avrebbe avuto le dita rovinate dai frammenti di vetro. Si diceva che durante l’affissione di questi manifesti ci fosse stato un inseguimento notturno tra la macchina di facinorosi e quella dei carabinieri. Poi cadere per una buccia di banana! Intanto i manifesti rossi rimasero a lungo. Pinelli fu sempre ricordato come innocente ed io quella mattina andai col cuore che mi batteva forte al tribunale di Trani, senza sapere quello che sarebbe successo. Quando l’avvocato Leonida Laforgia mi vide si arrabbiò perché lui avrebbe voluto che fossero presenti molti compagni a sostenere la sua arringa e io arrivai da solo, non solo perché mi vergognavo di dire ai compagni di venire a far casino per me in tribunale, ma anche perché i tempi erano cambiati e non tutti erano disponibili a perdere tanto tempo per tanto poco. La fatica di portare idee nuove con schemi politici entusiasmanti ma faticosi ci aveva resi stanchi, e la stanchezza non concede di alzarsi di buon ora al mattino per andare in tribunale per una causa che non è la tua. L’avvocato allora mi spiegò che, sul piano procedurale, avevamo poche frecce al nostro arco visto che l’eccezione di incostituzionalità era stata respinta. E io non l’avevo capito. L’avvocato allora mi spiegò che, se durante la sua arringa ci fossero stati applausi e consensi da parte del pubblico, la sua oratoria sarebbe stata più convincente, ma così senza compagni, quali corde avrebbe dovuto far vibrare per salvare una situazione compromessa? E fu allora che il giudice chiamò il maresciallo capo della stazione dei carabinieri e, fra l’altro, gli chiese se mi avesse visto distribuire il volantino incriminato durante ha manifestazione. Il maresciallo rispose “no”. Ci fu un mormorio in tutta la sala. Era vero, io non avevo distribuito quel volantino, ma non pensavo che questo fatto mi avrebbe risparmiato guai grossi e non pensavo che il maresciallo, che sapeva quello che diceva, mi avrebbe guardato bene in faccia prima di dire quel “no”. Non lo ringraziai, né mi venne in mente di dover fare qualcosa del genere, ma quando lo incontravo per strada sempre più curvo col passare degli anni e sempre meno maresciallo lo guardavo in faccia e facevo sempre un cenno del capo, deferente. © Riproduzione riservata