“A Franco e Gilda”, mostra alla Sala dei Templari
È stata inaugurata sabato 1 dicembre nella Sala dei Templari la mostra A Franco e Gilda, sorta dalla collaborazione tra la Galleria 54 Arte Contemporanea e il Comune di Molfetta. L’allestimento prevede anche una sezione, quella degli abiti di Gilda Poli, presso la Galleria 54, in via Baccarini. Al vernissage hanno partecipato Vitangelo Poli, discendente del pittore, i galleristi Vitulano e il direttore di 54 Arte contemporanea, il pittore Franco Valente. Sono intervenuti l’assessore alla Cultura Sara Allegretta e il prof. Gaetano Mongelli, che ha offerto una preziosa nota critica sul profondo significato e il valore estetico dell’opera di Poli. L’inaugurazione ha riscosso notevole successo di pubblico e gradimento per la qualità dell’allestimento. L’assessore Sara Allegretta, reduce dall’udienza presso il pontefice Francesco I, cui hanno partecipato oltre 3.000 nostri concittadini, ha espresso la sua soddisfazione per l’evento. Ha definito la produzione esposta un vero e proprio inno all’Amore, declinato secondo la duplice direttrice del sentimento personale per la sposa e compagna di vita, Gilda Poli, e del profondo attaccamento alla città di Molfetta e alle sue tradizioni popolari. Momenti culturali come questo hanno il prioritario obiettivo non solo di omaggiare figure importanti della nostra storia, ma anche di restituire alla città e soprattutto alle giovani generazioni un patrimonio di valore inestimabile. Così è nata infatti questa mostra che ha raccolto opere nelle disponibilità del Comune e quadri della collezione personale di Vitangelo Poli. Gaetano Mongelli ha presentato con commozione i segni distintivi di un itinerario artistico che è stato al contempo “diario intimo e pubblico”. Emerge il drammatico porsi del problema del rapporto tra contenente e contenuto; la tragedia della “memoria cristallizzata” di cui gli abiti di Gilda sono il segno più lacerante. Una mostra che è un “omaggio al viaggio nella madeleine della memoria di Proust”. Un viaggio in cui “la cultura di Franco Poli” e la sua anima “mettono sotto campana anche i nostri fallimenti”, “gli abiti che non potremo più indossare” (un riferimento chiaro a tutto ciò che la nostra terra sta gradatamente perdendo, anche in termini di giovani intelligenze). Un viaggio all’insegna di una “pittura fatta di mestiere che conta, parola che nei vocabolari delle avanguardie è stata spesso negletta”, e di un “patrimonio visivo di enorme spessore e qualità immaginaria e immaginifica”. Pittura che conquistò l’apprezzamento di Carlo Carrà. “In quella ‘beatitudine’ della provincia da Poliraccontata (lo spunto è tratto da un’espressione di Honoré de Balzac: “Beato chi ha una provincia da raccontare!”) filtrava una luce che dalle guglie di Milano non arriverà mai”. In un momento di forte emozione, Mongelli fa rivivere alcune delle figure che hanno popolato e amato questa nostra realtà, da Salvatore Salvemini ad Antonio Nuovo, per il quale Mongelli annuncia un progetto monografico, sino a Orazio Panunzio, da lui accostato all’angelo della Melancholia di Dürer. Chiude Vitangelo Poli, ricordando come suo zio Franco abbia “tracciato tutto il suo lavoro, attestandosi sulla sequenza atemporale dell’anima”. La visita della mostra non fa che confermare quanto precedentemente riportato. Sono tanti i dettagli che ci colpiscono. Nella “Finestra del mio studio” il filtro della distanza squaderna un paesaggio dai toni autunnali e nasce il dubbio che quell’autunno, perfettamente in linea con i cromatismi dell’interno e con il silenzio di una sedia in attesa, sia una condizione ontologica. Lo sguardo del pittore si fissa sugli oggetti, li restituisce con la precisione del tecnico, nella resa delle venature dei bicchieri, nelle pieghe dei panni, nelle bellissime composizioni di frutta secca. Il mestiere di cui parlava Gaetano Mongelli è ribadito in ogni tela. Ora si cerca la precisione rappresentativa ora si punta a un’oscillazione sapiente tra finito e suggerito o evocato o abbozzato (nel ciclo della Settimana Santa), nell’intento di attivare la dimensione della doppia visione. Gli oggetti di Gilda, dagli scialli sciorinati quasi a mo’ di quinta teatrale ai cappellini vezzosi o agli ombrellini pieni di grazia, hanno il potere di introdurre note squillanti in un ordito dominato da malinconiche cromie. Eppure quelle note di coloristica vita echeggiano la tragedia della condizione umana. Il venir meno di una presenza amata, per cui ogni oggetto grida l’assenza, rievoca la vita per poi subito negarla. Come diceva De Sanctis a proposito della leopardiana Nerina, “apparisce con l’impronta dello sparire”. È il valore cosmico della vera arte. Guardo quei fiori secchi allineati addossati a una parete e li trovo di una potenza espressiva assoluta. Allineati dalla mano del pittore: ritti eppure morti. Recano ancora tracce dell’antica bellezza, ma sono già corrosi dallo scorrere del tempo. C’è in essi la promessa della vita di un tempo e il tradimento della stessa. E quegli insetti che forse una semplice illusione ottica fa quasi apparire prigionieri delle campane di vetro per santi o fiori finiscono per essere un’allegoria di ciò che siamo stati, siamo e saremo. Prigionieri di una montaliana aria vitrea, in cui ci muoviamo alla ricerca di un ubi consistam, feticisticamente legati agli oggetti che recano l’impronta di una felicità passata. Una felicità di cui magari non ci rendevamo nemmeno conto o che forse la distanza temporale fa percepire come tale. Un qualcosa che appare oggi felicità per la semplice e tragica consapevolezza che non sarà più. © Riproduzione riservata
Autore: Gianni Antonio Palumbo