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“La morte falcia a grande messe” Un giovane molfettese alla guerra di Libia
15 dicembre 2001

di Ignazio Pansini Il 29 novembre 1911 il molfettese Cesare Gadaleta, classe 1888, aggregato alla prima compagnia del primo battaglione del 26° Reggimento di Fanteria,sbarcava in Libia.Dopo 9 mesi di guerra, il 3 agosto 1912, s’imbarcava sul “Sannio” per essere rimpatriato.Nelle pause dei combattimenti, scrive su un quadernetto a cancelli impressioni e commenti sui principali fatti d’arme cui partecipa.Quaranta paginette vergate con grafia leggibile e regolare, e con rare correzioni:non un diario,piuttosto una cronachetta degli eventi che gli sono parsi più degni di ricordo.Cesare appartiene ad una famiglia di proprietari terrieri,dediti al lavoro e severi custodi dei tradizionali valori dell’epoca:ha studiato in Seminario fino alla quinta ginnasiale,possiede una discreta cultura e già da anni aiuta il padre nella cura della proprietà.Egli fu mio nonno da parte di madre,e il documento, intitolato: “Brevi appunti e ricordi della campagna d’Africa,1911-1912”, mi è stato gentilmente favorito da una mia zia,che ringrazio. Sono note le premesse di politica internazionale che spinsero la classe dirigente italiana ad intraprendere l’impresa libica:l’inarrestabile sfaldamento dell’Impero Ottomano,il consolidamento dell’influenza francese sul Marocco,l’avvicinamento turco-tedesco rischiavano di escludere l’Italia dal banchetto coloniale africano. All’epoca,le cancellerie del cosiddetto mondo libero non avevano ancora partorito le farse delle guerre umanitarie e,molto meno ipocritamente,si ragionava in termini di pura superiorità razziale e militare .L’Italia non fu da meno,e conquistò il suo bravo scatolone di sabbia.Meno noti sono alcuni risvolti dell’impresa:l’entità delle forze in campo,la resistenza della popolazione araba,fedele all’antico e mite dominio turco,la feroce repressione italiana.In questo senso le fonti non ufficiali sono di grande aiuto per conoscere il reale andamento delle operazioni.Disponiamo di ottime corrispondenze giornalistiche francesi ed inglesi;si può consultare la stampa italiana anarchica e quella socialista non allineata;esistono infine diversi diari e ricordi di protagonisti,alcuni dei quali editi. E, nel nostro piccolo, abbiamo anche i “Brevi appunti” di Cesare Gadaleta. Premetto subito che la lettura del quaderno non riserva grosse sorprese.Il Nostro è perfettamente convinto della legittimità della conquista,riporta i discorsi degli ufficiali superiori condividendoli;insensibile al coraggio del nemico,racconta con fierezza quello degli italiani,senza però enfatizzarlo:insomma un bravo soldato che fa il suo dovere,che non discute gli ordini,che non si pone problemi,e che vuol tornare a casa a vedere la sua prima figlia,nata a Molfetta il 22 marzo 1912,che ha voluto chiamare Derna per secondo nome. Di fronte a fonti di questo genere chi voglia individuare tracce di quelle verità che stanno sempre dietro le menzogne ufficiali di tutte le guerre e che è sempre difficile acquisire,ieri come oggi,non può che attenersi ai fatti,valutando quegli esposti, come esposti, e quelli palesemente taciuti.Infatti una lettura attenta e mirata degli eventi, quando sufficientemente narrati in sequenza razionale e cronologica, ci consente di trarre indirettamente da queste fonti elementi preziosi di conoscenza, prescindendo dalle intenzioni dello scrivente, anzi a volte contraddicendole. Vediamo di applicare brevemente questa tecnica agli “ appunti” di Cesare, tenendo presenti l’esiguità del documento e la personalità dell’autore , impermeabile sia ad esaltazioni patriottarde che a denunce pacifiste. Il 26° Reggimento è schierato pochi chilometri a sud di Derna lungo una sottile linea trincerata avente alle spalle il mare,e di fronte la balze di un vasto altopiano inciso da profonde erosioni,all’interno delle quali si nasconde il nemico,suddiviso in nuclei di beduini arabi comandati da ufficiali turchi.Le compagnie del 1° battaglione,coadiuvate dal battaglione alpino “Edolo”, difendono la linea a ridosso delle ridotte campali “Lombardia” e “Cosenza”.Il nemico attacca di notte,con pattuglie di guastatori che tentano di eliminare posti di vedetta e nidi di mitragliatrici avanzati:sono quasi sempre individuati e annientati, ma tengono la fanteria in continua tensione. I rari combattimenti diurni evidenziano l’enorme superiorità italiana, sia numerica, che per armamento. Il 12 febbraio, alla fine della lotta, si contano sul terreno 5 morti fra i nostri e 294 fra i turco-arabi. Qualche giorno prima, al termine di una scaramuccia, Cesare si lascia andare ad un commento piuttosto macabro: “Curioso aneddoto guerresco:ogni soldato torna alla ridotta con beduini infilzati”.Il 3 marzo si ebbe uno scontro di un certo rilievo nei pressi di Sidi Abdalla. Mio nonno lo descrive minutamente e conclude “Se avemmo a deplorare gravi perdite da parte nostra,54 morti e 170 feriti,pur non di meno il vallone al di là del Marabutto era disseminato di cataste di cadaveri”. Il 24 aprile viene annunciata la morte in combattimento del colonnello Enver Bey,valido comandante degli irregolari turco-arabi nella zona di Derna. Il molfettese non può verificare la falsità della notizia dovuta probabilmente ad un intento propagandistico. Enver, dopo aver avuto un ruolo di primo piano nella Turchia del primo dopo guerra, morirà a Buchàra nel 1922,combattendo contro l’Armata Rossa. Il 7 maggio cadono in un’ imboscata un beduino ed un ufficiale turco,che si rivela essere in realtà una spia francese. E proseguono così gli “Appunti” del nostro coloniale,inchiodato per 9 mesi nella sua buca di sabbia,insidiato ogni notte dal pugnale beduino. Di un certo interesse sono i discorsi alla truppa degli ufficiali superiori,che Cesare riporta fedelmente:evidente la sua fiducia nei capi e la condivisione dei loro argomenti:senza di esse non riuscirebbe a saltar fuori dalla trincea con la baionetta in canna,ora nel deserto libico,fra 3 anni sulle pietraie del Carso. Il 31 dicembre 1911 il generale Cappello parla al battaglione,seduto sulle dune in ordine sparso. “Rievoca il nostro pieno diritto su questa terra africana”,ed auspica che “su queste lande desertiche l’aratro risvegli il terreno dal suo lungo letargo”. Evidentemente il prode generale ignorava che gli arabi dissodavano quelle oasi da secoli. Il 12 maggio dell’anno dopo un Comandante di Brigata esalta il valore e l’eroismo del soldato italiano,che sarà ricordato “Finchè il sole risplenderà sulle sciagure umane”. Un inedito barlume di meditazione filosofica in questa citazione foscoliana del coriaceo condottiero? Il giorno dopo il generale Cappello ritorna a toni più realistici: “Ora non vorrei che voi altri che vi siete mostrati così valorosi,ritornaste in Italia col marchio dell’infamia. Ben so che dovunque vi sono dei sobillatori: ma, ne sono certo, questi non sorpasseranno le dita della mia mano”.Se fossero stati veramente così pochi,il generale non ne avrebbe parlato al Reggimento schierato, ammonendo i soldati, prima del rimpatrio, a tacere su quanto avevano visto. Torniamo indietro, per concludere, all’Ordine del Giorno firmato a Derna il 4 marzo dal Comandante la Divisione. “Tutto il furore di cui il nemico è capace, coll’aiuto potente del fanatismo, si sono infranti per ben due volte contro il vostro spirito di disciplina”. Queste affermazioni del generale italiano sono rivelatrici, e si prestano anche a considerazioni di attualità. Egli ha perfettamente ragione ad attribuire molta importanza all’ “aiuto potente del fanatismo”,ma commette il solito errore dell’uomo bianco,impossibilitato a riconoscere le ragioni dei popoli sottomessi:definisce cioè con un termine generico e negativo, un comportamento in realtà logico e motivato. E’ evidente che il militare non può far derivare “il furore” degli arabi dal proposito di difendere la propria terra,la propria indipendenza,i propri valori: questo riconoscimento svaluterebbe automaticamente le giustificazioni morali e “civilizzatrici”della nostra aggressione. Il beduino può,anzi “deve”,essere fanatico: guai però a farlo diventare un eroe. Mutatis mutandis, mistificazioni analoghe, vengono confezionate in questi giorni,con mezzi e sofisticazioni enormemente maggiori. Soltanto Gino Strada,Giulietto Chiesa e pochi altri,purtroppo sempre più soli,riportano i dibattiti a livelli meno indecenti. Un saluto, infine, al giovane americano scampato al massacro “antiterroristico”della prigione afgana. Personalmente non ne condivido le scelte,ma neanche lo condanno:cerco di comprenderlo. Il suo connazionale della C.I.A., caduto, è stato proclamato eroe: lui, invece, è solo un “pazzo fanatico”, esattamente come quegli arabi di 90 anni fa, “infilzati”dai commilitoni di Cesare Gadaleta.
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