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Wellerismi inediti I nostri detti memorabili
15 aprile 2004

di Marco de Santis (Centro Studi Molfettesi) Quando Charles Dickens, scrivendo tra il 1836 e il 1837 il fortunato romanzo Il circolo Pickwick, inventò i personaggi di Sam Weller, faceto domestico di Samuel Pickwick, e di Tony Weller, arguto genitore di Sam, certamente non immaginava che il sentenzioso servitore e suo padre avrebbero addirittura dato luogo a una categoria paremiologica, quella dei wellerismi. Che sono i wellerismi? Sono aforismi d'intonazione ironica, seriosa o argutamente solenne attribuiti a personaggi storici o immaginari. Per esemplificare basteranno due citazioni dallo stesso Circolo Pickwick. Una battuta di Sam Weller è: “Prima il dovere, poi il piacere, come disse Riccardo III quando infilzò l'altro re nella Torre, in attesa di strozzargli i bambini”. Un frizzo di Tony Weller è il seguente: “È tutto per il mio bene, come diceva uno scolaro per consolarsi mentre lo frustavano”. Se Dickens ebbe il merito di creare personaggi così popolari per le loro facezie, il filologo tedesco Moritz Haupt nel secondo Ottocento all'università di Berlino richiamò l'attenzione dei suoi studenti sulle locuzioni di Sam Weller, da cui alcuni studiosi ricavarono in seguito la voce Samwelleriana. Prevalse poi il termine wellerism, consacrato nel 1931 dal paremiologo statunitense Archer Taylor nel classico manuale The Proverb. Il neologismo si è quindi diffuso in altre lingue, e in Italia, a partire dal 1947, ha preso piede la voce wellerismo (con la variante grafica vellerismo), sicuramente ibrida e poco originale, ma, nella sua concisione, più pratica e rapida della locuzione facezia proverbiale, che non ha riscosso finora molto successo. Naturalmente espressioni del genere sono vecchie quanto il mondo e si possono rintracciare già in autori dell'antichità, come Teocrito o Tito Livio. Anche in Italia sono abbastanza precoci. Ad esempio, Dante nell'Inferno (XXVIII, 106-107) scrive: “Ricoredera'ti anche del Mosca, / che disse, lasso!, «Capo ha cosa fatta»”. Inoltre nell'opera di Agnolo Firenzuola La prima veste de' discorsi degli animali (1540 circa) si può leggere: “Che vi bisogna portare or tant'arme addosso che la guerra è finita? diceva la volpe all'istrice”. Altri motti erano attribuiti al Piovano Arlotto, al buffone Gonnella, a Marcolfo, a Biagio, a quel tale, a quel fattore, a quella buona donna, al gallo, al lupo ecc. Per quanto riguarda Molfetta, in particolare, non risulta che qualcuno abbia mai pubblicato una serie organica di wellerismi. È però vero che qualche esempio si può rintracciare nelle raccolte di adagi dialettali molfettesi. Infatti in Molfetta mille e un proverbio (Mezzina, Molfetta, 1969) di Rosaria Scardigno ve ne sono almeno sette: “Armêmmënë e partitë”, [dissë curë] (“Armiamoci e partite”, disse quello); “Curë ci së pòngë assèssë fóërë”, [dissë u rizzë dë fóërë] (“Quello che si punge vada fuori”, [disse il riccio campestre]); Dissë u mónëchë a la fàvë: “Dêmmë tìëmbë ca të scarvòttë!” (Disse il tonchio alla fava: “Dammi tempo e ti perforo”); “So nnégrë, nê llë vógghjë”, [dissë la vòlpë], (“Son neri, non li voglio”, [disse la volpe, non riuscendo a ghermire i testicoli di un asino che stava inseguendo]); U êmmulafùërcë: “Picchë më dè e ppìcchë t'êmmòëlë!” (L'arrotino: “Poco mi dai e poco ti affilo!”); “Va bbénë”, dissë don Elénë, quênnë acchjì la gattë, la figghjë e la mëghhjéëra préënë (“Va bene”, disse don Eleno, quando trovò la gatta, la figlia e la moglie incinte); “Vattinnë, mòschëlë, ca nên dénghë rë ffórzë tò”, [dissë u giaghêndë] (“Vattene, mosca, ché non ho le tue forze”, [disse il gigante alla mosca che lo tormentava]). Altre occorrenze sono state da me segnalate in Perché si dice così? (Ed. Quindici, Molfetta, 2002): La chêmbênë dë Mêmmërëdónjë: “Dêmmë ca të dónnë” (La campana di Manfredonia: “Dammi affinché io ti doni”); “Nê lla vógghjë, ca è agréstë!” dissë la vòlpë (“Non la voglio, perché è acerba!” disse la volpe); “Nên acchjë nu palmë néttë!” dëcèëvë curë (“Non si trova un palmo netto!” diceva quello, cioè il sapiente col lanternino); “Picchë, mêldìttë e ssùbëtë!” dissë Sciàutë (“Pochi, maledetti e subito!” disse Giuda [dei trenta danari]); “ Vïatë a la pëlëzzàjë!” dissë u pùërchë, e së mlëttò ind'a la cónghë (“Viva la pulizia!” disse il porco, e si rotolò nel brago); Dissë u pùërchë mbàccë o ciuccë: “Ammêndënìmmëcë pulitë!” (Disse il maiale al ciuco: “Manteniamoci puliti!”); Dëcèëvë bbùënë u vécchjë Ghëdòënë: “Rë ccòësë fattë affórzë nên zò bbòënë” (Diceva bene il vecchio Guidone: “Le cose fatte a forza non son buone”) ecc. In questa sede propongo ora un gruzzolo di wellerismi localmente inediti. Uno è di origine evangelica: “Viatë a lë lùtëmë…”, dissë Cristë (“Beati gli ultimi…”, disse Cristo). Un altro mette alla berlina l'incoerenza di certi ministri del culto: “Facitë chèrë ca dich'ìë e nên zìtë facénnë chèrë ca fazz'ìë”, discë u prévëtë pùërchë (“Fate quello che dico io, ma non fate quello che faccio io”, dice il prete scostumato). In Toscana similmente si ripete: “Fate quello che dico e non quello che faccio”, disse il predicatore. Alcuni wellerismi sono di provenienza napoletana. È il caso di quelli relativi alla tipica maschera partenopea: Dissë Prëcënéddë: “Pë lë tërràisë më përdìëbbë la mégghja mêngiàtë” (Disse Pulcinella: “Per non aver denari, persi la miglior mangiata”); Dëcèëvë Prëcënéddë: “Mmézz'ê mmêrë nên àcchjënë tavèrnë” (Diceva Pulcinella: “In mare non si trovano taverne”), cioè nella vita sempre in movimento non c'è ricovero o tregua. Probabilmente è di matrice napoletana anche il detto “Póvër'ê nnêuuë!”, dissë Prësuttë, quênnë së vëdàjë arrëvatë all'ùëssë (“Poveri noi!”, disse Prosciutto, quando si vide arrivato all'osso). Infatti il personaggio in questione ricorre anche in un wellerismo partenopeo: Dicettë Prësuttë: “'Na vota pe' unë tocc'a tuttë” (Disse Prosciutto: “Una volta per uno tocca a tutti”). Per una città adriatica come Molfetta non potevano mancare dialogismi di ambiente marinaro, ancora in uso agli inizi del secondo Novecento, come mi faceva sapere mio padre Giuseppe (1916-1994), che era stato motorista navale. Eccoli: U mêrë dissë o scùëgghjë: “Tìëmbë m'ha da dà, mê pur'a ttéëchë t'ha da rësëquà!” (Il mare disse allo scoglio: “Devi darmi tempo, ma finirò per corrodere anche te!”). E ancora: Dissë u Gréëchë: “Raga cazzë!” (Disse il Greco: “Andiamoci piano!”); “Gallia gàllië…”, dissë u Gréëchë (“Bada a te…”, disse il Greco), che equivale pressappoco a “Ci rivedremo a Filippi!”. Le ultime due espressioni sono state introdotte dai marinai di paranza ai tempi della pesca velica, quando dal Settecento ai primi decenni del Novecento facevano lunghe campagne di pesca in Grecia, oltre che in Egitto, Turchia, Tunisia e Crimea. Altro wellerismo marinaresco nostrano è “Ùëcchjë dë nóttë, ùëcchjë dë culë”, dissë u Mëlèësë (“Occhio di notte, occhio di culo”, disse il Molese), ossia: di notte la vista è fallace. Va precisato che non si tratta di un detto triviale, come di primo acchito potrebbe sembrare, perché l' ùëcchjë du càulë è sì l'ano, ma anche qualsiasi inservibile forellino. Invece decisamente triviale è il motto dialogato Sè cé ddìssë Pëzzarìëddë? — A ci ngiu càchë! (Sai che disse Pizzarello? — Chi se ne frega!). Agli antipodi del menefreghismo più becero c'è lo spirito di sopportazione monacale, per il quale ricordo due wellerismi: “Paciénzjë…”, dissë fra Frêngìsckë a sora Frêngèsckë (“Pazienza…”, disse fra Francesco a suor Francesca); “Paciénzjë!”, dissë u mónëchë (“Pazienza!”, disse il monaco). A questa aneddotica appartiene il proverbio toscano La pazienza la portano i frati, che è la risposta di chi, rifiutandosi di averne, celia sul termine pazienza che vale anche 'scapolare'. Sulle questioni di principio esiste una sentenza contadina: “Nên è pë la favë, è pu chërràivë”, dissë curë dë fóërë (“Non è per la fava, è per l'offesa”, disse il forese). Di àmbito rurale è anche “Të saccë néërë!” dissë curë dë fóërë (“Ti conosco ciliegio!” disse il contadino). È ciò che esclamò il bifolco, vedendo inascoltate le sue reiterate richieste di grazia, alla statua del santo scolpito nel legno di un suo ciliegio infruttifero. In Toscana e altrove corre il detto “Ti conosco, pero (o fico)!”, disse quel contadino. Un apologo in miniatura è la beffa ai procrastinatori e ai fiduciosi nel futuro: “Crè”, fascë la crënnêcchjë (“Crai”, fa la cornacchia). Interessante per la gastronomia può risultare un responso venatorio: “Dë la vëlàtë, u turdë; dë lë quatrùptë, u léprë”, dissë u cacciatòërë (“Dei volatili, il tordo; dei quadrupedi, la lepre”, disse il cacciatore). Fu la risposta a chi gli chiedeva quale fosse la migliore selvaggina. Per finire, cito un wellerismo più recente: “Comë sò pulìtë lë Tagliênë…”, dissë u Nglèësë (“Come son puliti gli Italiani…”, disse l'Inglese). La frase fu proferita con ammirazione da un britannico passato dalle nostre parti, quando vide un tale mettere il pane sotto lo zampillo di una fontana. Non si trattava però di un inguaribile igienista, ma soltanto di un poveraccio che, non avendo di meglio da mangiare, ammollava con l'acqua un tozzo di pane duro!
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