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Viaggio tra vera e presunta evasione fiscale
15 aprile 2015

Il nostro sistema nazionale è in una crisi “sistemica”, come dicono gli esperti, dal 2009, a partire dalle difficoltà di un segmento particolare del mercato finanziario statunitense che iniziò a scricchiolare nel 2007. In questo clima è tornato all’orizzonte il fantasma della disoccupazione di massa complice un mercato del lavoro inadeguato ad assorbire l’offerta e l’introduzione del lavoro flessibile con la progressiva perdita di garanzie dei lavoratori, specialmente dei più giovani, senza trascurare la globalizzazione che ha inciso grazie alla competizione con Paesi altamente concorrenziali, senza dimenticare una riduzione dei redditi legati a retribuzioni che oggi appaiono relativamente modeste rispetto a quelle di un tempo non troppo remoto. Come ogni crisi la diretta conseguenza è quella della contrazione sensibile dei consumi e più in generale di atteggiamenti umani tesi a tesoreggiare quanto più possibile. Ecco che in questo clima ha iniziato sempre più a serpeggiare la parola “evasione”, ovvero quel comportamento contro legge che si concretizza nell’occultamento del presupposto impositivo in quanto il contribuente si sottrae, fraudolentemente, all’obbligo impositivo previsto dalla norma tributaria. Per dirla in altri termini si generano redditi nascosti e non palesi, che sfuggono all’assoggettamento a contribuzione sociale e a tassazione, spesso determinato dall’esigenza di trattenere per sé quote necessarie spesso finanche a sopravvivere. Non si tratta evidentemente di una realtà sommersa o che spuntata fuori all’improvviso perché qualcuno lo ha deciso, ma di un fenomeno che a causa di “contingenti” difficoltà economico finanziarie, aumenta al fine mantenere un tenore di vita costante, come la possibilità di cambiare automobile, di fare le vacanze, di spendere per i figli. In tutto ciò non è necessario arrivare sempre ai limiti del sistema economico, poiché vi sono situazioni in cui un operatore economico, un venditore al dettaglio o un libero professionista, se dichiarassero tutto il loro reddito, non è detto che chiuderebbero necessariamente a zero, ma probabilmente non verrebbe adeguatamente remunerato il lavoro. Certo, sono opportunità che i dipendenti, a parità di reddito lordo, non possono cogliere perché sono tassati fini all’ultimo centesimo. Tutto ciò, però va tenuto distinto dal grande evasore quale soggetto che omette la registrazione di tanta ricchezza che in assoluto non esiste, o è un fenomeno secondario, molto spesso ricavabile dall’immaginario collettivo. Questo, spesso, è qualcuno molto bravo nel proprio lavoro ovvero un professionista “ad alto valore aggiunto” o titolari di medie e piccole aziende dove il titolare ha più “mano libera” rispetto a coloro che detengono il potere in aziende di grandi dimensioni (dove verosimilmente si evade poco), nelle quali essendo più visibili hanno margini di evasione bassissimi. Il tema “chi sono i grandi evasori” fomenta l’immaginario collettivo, alimentando solo una guerra tra ricchi e poveri, tra dipendenti e autonomi, tra sinistra e destra, tra socialisti-comunisti e conservatori cattolici, ecc. Le persone continuano a spiegarsi l’evasione fiscale con complotti, frodi, malvagità, diffidenze, nemici del popolo, partiti degli evasori, onesti e disonesti, contrasti di interessi, discrepanze tra dichiarato e tenore di vita, banche cattive, paradisi fiscali e spesso per quietare l’invidia sociale si cerca di trovare il modo più veloce per rasserenare il clima disorientato della società in crisi mediante i famosi “blitz”, che servono a mettere alla berlina mediatica qualche “faccia tosta” di turno, che nell’ipotesi peggiore, non presenta “neanche” la dichiarazione dei redditi. Spesso l’evadere o il non evadere viene attribuito al relativo concetto di onestà, senso civico, altruismo. L’opinione pubblica dunque fa fatica a credere che le aziende interessate al profitto, siano altruiste. Le banche, le assicurazioni, le aziende, sono di fatto dedite al profitto e agli affari propri, non certo alla beneficenza; per tale ragione la gente immagina, sbagliando, che queste replichino su larga scala e in proporzione al loro fatturato i comportamenti evasivi dei lavoratori autonomi. Per questo, la percezione delle persone considera subito grandi evasori le grandi aziende, misteriose e disumanizzate. A causa di questo clamoroso analfabetismo, i grandi esattori del fisco diventano grandi evasori, capro espiatorio delle schizofrenie sociali diffuse su questa materia. Ma se l’opinione pubblica non capisce, neanche la politica capisce, e di conseguenza anche le istituzioni come il Fisco e la Guardia di Finanza assecondano indirettamente le varie spiegazioni del fenomeno che si agitano nella società. I media dal canto loro, fanno cassa di risonanza alle emozioni e ai sentimenti dell’opinione pubblica registrando questo disorientamento. Ma, la critica alla quale si vuole giungere in questa sede è che affermare che gli evasori sono ladri, è un tentativo grossolano di spiegazione, comprensibile in una società che non capisce che le tasse si pagano quando qualcuno le richiede. In realtà, però, per avere un impatto sistematico sui comportamenti dei contribuenti ci vuole una pressione serena, ragionevole e costante. E’ necessario un controllo organizzato del territorio con una maggiore presenza effettiva del fisco, evitando gli eventi spettacolarizzanti ed iniziando a valutare i redditi con sistematicità. È la serenità della richiesta delle imposte che è venuta a mancare per troppo tempo, nello specifico la collaborazione tra agenti del Fisco e contribuenti chiamati in causa, senza perseverare in un oramai consueto accanimento sui vincoli normativi e sulle questioni di diritto. La società percepisce l’inutilità di una serie di controlli e la mancanza di quelli giusti. È una sensazione figlia del legalismo burocratico, dell’applicazione della legge “alla lettera”, poiché in quest’ottica le infrazioni diventano paradossalmente tutte uguali. Per capire perché parte del gettito tributario non arriva, bisogna capire la provenienza di quello che, invece, entra nelle casse statali. In realtà l’evasione non è una perversione privata, ma un fallimento del settore pubblico, come nella sanità, nei trasporti, nella sicurezza, nell’istruzione, nella giustizia e siccome c’è bisogno di un capro espiatorio di questi fallimenti, diamo la colpa “agli evasori”. Il partito della spesa pubblica dice che se ci fossero stati i soldi evasi avremmo potuto fare di più e meglio. Ma, forse, se negli ultimi decenni l’evasione non ci fosse stata, e fossero entrati più soldi nelle casse dello Stato, la macchina pubblica avrebbe sprecato (potenzialmente) pure quelli.

Autore: Rebecca Amato
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