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UPM Molfetta, Aldo Cormio: le origini della Repubblica
26 aprile 2011

MOLFETTA – Durante la fase dell’immediato secondo Dopoguerra, la Costituzione rappresenta un tentativo che va a contrastare una dinamica negativa a partire dal Seicento. Nel XVII secolo prende il via una diatriba, ancor oggi di grande attualità, tra potere e diritto. Il potere assoluto non dà risposte ai cittadini, per cui viene definito il “dio immortale”, identificabile con lo Stato, perché come Dio non dà risposte ai fedeli, allo stesso modo si comporta lo Stato. Di conseguenza, quasi tutta la classe dirigente non crede nell’esistenza di Dio, e quindi lo identifica diversamente.

 La Rivoluzione Francese non rovesciava questa situazione perché la matrice è la stessa, e quindi non poteva negare nulla di tutto ciò. È con la democrazia costituzionale che si afferma a metà Novecento che questo finalmente avviene. Infatti, grazie a ciò, le masse prendono coscienza del carattere diabolico del potere, che sfocia nella redazione della Costituzione, il cui vero padre è Giuseppe Dossetti.
 Egli militò nel partito che, dopo la caduta della monarchia, a seguito dell’abolizione del fascismo, prese il potere, ovvero la Democrazia Cristiana, fondata da don Sturzo, da cui quest’ultimo venne cacciato perché a questo partito si diede il compito di fare da mediatore con il fascismo, considerato che la grande maggioranza della classe dirigente era in qualche modo legata al movimento di Mussolini, sia per aver effettivamente aderito ai suoi ideali, sia per aver simpatizzato col suo partito.
 Quella di mediare è una tecnica della Chiesa che, dimentica degli insegnamenti del Vangelo, appare più preoccupata a difendere i propri privilegi politici, quali ad esempio quello di non pagare l’ICI, piuttosto che diffondere i valori su cui essa si basa. Non a caso al giorno d’oggi si sta disinteressando delle vicende di dubbia moralità, di cui si è reso protagonista il premier Silvio Berlusconi.
 Dossetti si trovò in contrasto con quello che diventerà il leader indiscusso della DC, ovvero Alcide de Gasperi, in quanto quest’uomo politico tese a giustificare molti comportamenti e a “chiudere un occhio”, mentre Dossetti fu più moralmente integro rifiutandosi di scendere a compromessi. Al contrario, De Gasperi accettava le condizioni che la Chiesa gli poneva, ovvero che i partiti assumessero una funzione puramente consultiva; che lo spirito antifascista, difficile da sradicare, finisse col tempo nel dimenticatoio; che bisognasse concedere un largo spazio ai tecnici; che il ruolo decisivo venisse affidato ai ceti medi, fortemente antidemocratici; e soprattutto che si susseguissero governi forti di ispirazione anticomunista.
Sono questi i punti toccati dal prof. Aldo Cormio, residente a Lecce da molti anni, ma di origine molfettese, nel corso della conferenza, tenutasi presso l’Università Popolare, sulla nascita della Costituzione e l’odierna crisi nazionale, che ha visto la partecipazione attiva di vari esponenti della vita culturale di Molfetta che, dopo l’intervento del relatore, hanno dato vita a un vivace quanto interessate dibattito, esponendo le proprie tesi e le proprie opinioni. A presentare il prof. Cormio è stata la presidente dell’UPM, prof.ssa Ottavia Sgherza (nella foto con Cormio).
 
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Autore: Olimpia Petruzzella
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1°Parte. - Quanti anni son passati, e quanta acqua è scivolata sotto i ponti ma, possiamo affermare che quella l'ITALIA è anche questa ITALIA? - L'unificazione avvenne estendendo a tutta l'Italia la organizzazione costituzionale e amministrativa del Piemonte. Le idee federaliste, di Cattaneo e Gioberti, e quelle regionaliste, di Minghetti, non si erano affermate. Perciò le istituzioni e le tradizioni pubbliche locali furono soffocate dall'impianto piemontese, fortemente accentrato e livellatore, nemico di ogni autonomismo. Il Piemonte aveva infatti una struttura centralistica di tipo napoleonico, ciò che fece la sua forza in guerra, ma lo rese inadatto a un governo della pace. Con le strutture amministrative, civili e militari, il Piemonte diffuse in tutta Italia la sua burocrazia. Questa per poter sottoporre a controllo regioni e popolazioni diversissime tra loro, stabilì alleanze con i notabili locali che erano stati mantenuti al loro posto e che, dal canto loro, collaborarono con i piemontesi per garantire i loro antichi privilegi contro le classi popolari. Il Gattopardo, il famoso romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, esprime questa idea di immutabilità dei rapporti sociali, pur nel nuovo stato: occorre che tutto cambi, perché tutto resti uguale (cioè occorrono nuovi padroni affinchè i vecchi si possano appoggiare a loro e perpetuare lo stato di cose del passato). Questo era vero soprattutto nel Mezzogiorno, ancora impregnato di rapporti sociali di tipo feudale profondamente refrattario all'influenza delle idee della liberazione, cui lo Stato malgrado tutto si richiamava. (continua)
2°Parte. - Questo impasto tra “piemontesismo” pauroso delle novità, e notabilato locale, anch'esso portato alla conservazione, fu una delle cause del decadere della vita politica. Il parlamento cessò di essere il luogo di espressione delle energie vive del paese (come era stato nei primi decenni di vita statutaria e divenne lo specchio dei suoi vizi. Gli affaristi abbondavano, il governo, burocratico e autoritario, divenne il padrone della situazione. Il sistema parlamentare si trasformò in un regime dominato dal governo. Il “partito di governo” usava l'amministrazione per favorire gli amici e colpire i nemici, violando l'imparzialità degli uffici pubblici (è quel che oggi si chiama sottogoverno). Questa corruzione che rapidamente dilagava come una lebbra che produce questo effetto; che il governo, invece di essere tutore dei diritti dei cittadini, diventa strumento per affermare interessi di parte. Questo denunciava Marco Minghetti, nel suo saggio “I partiti politici e la pubblica amministrazione”. A tale questione, in seguito, la critica antiparlamentare e poi il fascismo diedero una risposta negativa, cercando così di giustificare l'autoritarismo di fine secolo e poi la reazione fascista. I parlamentari, dal canto loro, facevano di tutto per giustificare la critica corrosiva contro il parlamento. La polemica (e la satira) antiparlamentare (contro la vanità, l'incompetenza, l'arrivismo, la corruzione, l'inconcludenza dei deputati) finì per indebolire il parlamento stesso e agevolare l'involuzione autoritaria del sistema. – “Occorre che tutto cambi, perché tutto resti uguale…………………………. (fine)
“Vivere in una società è un nostro destino e un nostro compito. E' un destino perché siamo nati in società e non potremmo liberarci di essa. Uscirne e far parte per noi stessi può sembrarci talora un'idea promettente, quando ci scoraggiano la pesantezza e le difficoltà dei rapporti con gli altri. Ma è un'utopia, poiché la società ci afferra in mille modi e in ogni momento. Non importa se l'uomo e la donna siano per natura animali sociali, come dicevano gli antichi, oppure se si uniscano tra loro per reciproca utilità, come dicono i moderni. Sappiamo comunque con certezza che non c'è vita individuale fuori dalla società e che dappertutto al mondo le esistenze degli uomini e delle donne si uniscono durevolmente le une alle altre, formando società più o meno vaste e più o meno giuste, con legami più o meno intensi e costrittivi. Nessuno di noi potrà allora farsi estraneo alla società in cui gli è toccato di vivere e ai suoi problemi, né potrà dire: non mi riguarda. La fuga in un mondo puramente individuale può essere l'illusione di un momento, non la realtà della nostra vita. Vivere in società è anche un nostro compito, un compito attivo e cosciente. Tra tutti gli esseri viventi che formano società, solo agli uomini spetta il privilegio, che è anche un terribile fardello, della libertà. Essi sono (o possono rendersi) liberi di fronte alla società del loro tempo: possono difenderla e consolidarla, come fanno i conservatori; combattersi per trasformarla fino a metterla sottosopra, come fanno i riformatori e i rivoluzionari; perfino limitarsi a subirla apaticamente, come fanno gli ignavi. La vita sociale dipende quindi anche da quanto gli uomini avranno o non avranno fatto per migliorarla, renderla più giusta, più umana, più degna di essere vissuta. Poiché nessuno può rendersi estraneo alla società di cui fa parte, su tutti grava la responsabilità dell'uso che ciascuno avrà fatto della sua libertà. E' una responsabilità difficile da sopportare per gli uomini di questo inizio del XX secolo. I mezzi di cui dispongono possono consentire grandi successi nel miglioramento delle società in cui vivono, ma possono portare, al contrario, verso la riduzione o l'eliminazione delle possibilità stesse della vita. Le capacità umane, nel bene e nel male, non sono mai state tanto grandi; i rischi della libertà mai così terribili. L'uomo che si è fatto così straordinariamente potente deve prendere straordinariamente sul serio di vivere in società.” - (Gustavo Zagrebelsky - 1988)

Non per niente ora si parla di rivedere la Costituzione, elaborata con l'ossessione di un ritorno fascista, senza la previsione – pur facile – di una devastatrice impotenza dell'esecutivo; che è proprio la premessa alle tentazioni autoritarie. Da tutti coloro che inneggiarono prima al centro-sinistra rinnovatore, poi alla contestazione, gli anni Cinquanta furono sempre descritti in chiave negativa: conformisti, venati di clericalismo intollerante, spiritualmente spenti e culturalmente depressi, anni, in questa ottica, di stagnazione e di autobus perduti. C'è del vero in questo florilegio di accuse. La televisione di Stato metteva la calzamaglia alle ballerine, i vescovi avevano l'aria di superprefetti, e i prefetti guardavano più al Vaticano che al Viminale. De Gasperi – proprio perché era vissuto tanti anni all'ombra del Vaticano, ne conosceva le grandezze e le miserie, e ne aveva sofferto le costrizioni – sapeva contrastare l'invadenza ecclesiastica. Non amò papa Pacelli, e non fu riamato. I suoi successori avevano altra statura e, in qualche caso, più pieghevole schiena. Sì, l'Italia era avvolta nell'incenso. Ma non esageriamo. La libertà fu preservata, la stampa potè scrivere senza impedimenti e censure; e proprio sulla disavventura giudiziaria del figlio d'uno dei più importanti notabili democristiani – il processo contro Piero Piccioni per la morte di Wilma Montesi – i quotidiani camparono un paio d'anni. Piccioni era innocente, la sua incriminazione era stata il frutto di “voci” inconsistenti e del protagonismo di un magistrato, Sepe, che divenne celebre, e probabilmente anche di faide democristiane. L'Italia perse degli autobus e fece scelte sbagliate. Furono senza dubbio sbagliati i criteri della riforma agraria, di stampo anacronistico, basata sulla piccola proprietà contadina, che è in antitesi con un'agricoltura moderna, e non sulla creazione di grandi e razionali aziende. E fu miope la politica industriale che Valletta e altri imprenditori del Nord perseguirono, facendo affluire dal Meridione milioni di braccianti per trasformarli in operai: e alimentando così il gigantismo delle città, la nascita di smisurate e squallide periferie metropolitane, l'alienazione (e la ribellione) delle nuove masse proletarie, la perdita di identità, per effetto dell'immigrazione massiccia, di città come Torino. Tutto questo è vero. Ma è altrettanto vero che l'Italia, uscita da una guerra devastatrice, attuò una costruzione che sbalordì il mondo, e diede via al “miracolo”. Fu un fenomeno di vitalità e capacità che sopravanzò le vecchie formule di politici, economisti, sindacalisti. Il Paese galoppava, e la sua classe dirigente stentava ad accorgersene. I sindacalisti, che tanto insistevano allora sulla programmazione, e sono sempre pronti a presentare piani a lunga scadenza, si battevano per l'imponibile di mano d'opera nelle campagne, e non capivano che presto, prestissimo il problema da affrontare non sarebbe stato quello di una mano d'opera agricola esuberante da imporre, ma quello di una mano d'opera agricola da reperire. Con le sinistre ancorate a schemi ottocenteschi, con i democristiani incapaci di afferrare la realtà e le prospettive di una società industriale e di un'economia di mercato, legati com'erano al loro vecchio assistenzialismo, l'Italia camminò da sola. Con disordine, con abusi, con le sgomitate dei capaci e dei furbi e l'emarginazione di chi capace e furbo non era. Fu un periodo che, sotto la statica vernice politica, nascondeva un'energia irrefrenabile e un'impetuosa turbolenza di fondo. Il Paese agricolo diventava uno dei massimi Paesi industrializzati, all'insaputa di chi avrebbe dovuto guidare l'immane cambiamento. (Italia Ventesimo Secolo – Selezione dal Reader's Digest).
Se è giusto, oggi, aprire il dibattito sulle ambiguità della macchina costituzionale e sugli inceppamenti che ne derivano, sarebbe antistorico valutare l'operato dell'Assemblea Costituente senza tener conto del clima politico, degli eventi che attraversarono il suo percorso, delle circostanze storiche e dei rapporti di forza, degli equilibri necessari a evitare la paralisi del consesso che aveva il compito di redigere e approvare il testo della Costituzione in cui nessuna forza politica poteva, da sola, imporre numericamente le proprie tesi. La composizione dell'Assemblea era tale da obbligare alleanze, alle intese, agli accordi. La vittoria (una vittoria non scontata: il Vaticano e papa Pio XII paventavano il prevalere dei social comunisti) era della Democrazia Cristiana. Ma, in pratica, i due schieramenti, le due opposte culture si equivalevano e avrebbero potuto paralizzarsi. Da una parte la cattolica e, allora, vaticanissima DC; dall'altra i partiti marxisti che di lì a poco, il 27 ottobre 1946, avrebbero sottoscritto un patto di unità d'azione, già funzionante nei fatti e preludio del Fronte Popolare nello scontro elettorale del 1948. Il compromesso era, dunque, una necessità fisiologica. La Costituzione pur non deviando dai suoi binari progressisti, finì con l'influire sulla ricostruzione dell'ordinamento dello Stato su schemi maggiormente aderenti a quelli tradizionali di quanto non fosse stato concepito all'indomani del conflitto. Insomma, un colpo di freni sulle spinte "audacemente innovatrici" nate durante la Resistenza. La DC si batteva ovviamente per far valere quanto più possibile il disegno vaticanista. I suoi obiettivi principali erano la consacrazione dei Patti Lateranensi, e altri "pacchetti" di irrinunciabili traguardi che contrastavano con il principio della laicità dello Stato. Lacerante fu il dibattito sull'Art.7 della Costituzione, che trasferisce di fatto i Patti Lateranensi nel nuovo ordinamento dello Stato. Socialisti, repubblicani e azionisti contestavano l'incompatibilità con i principi di libertà della Carta alcune norme del Concordato, sventolando le bandiere della laicità e, sul piano politico, le ingerenze del Vaticano. Ma Togliatti, per calcolo politico e per evitare una spaccatura verticale nel Paese che avrebbero potuto avere conseguenze disastrose, annunciò il sì del PCI. Quello sul Concordato è, fra i compromessi che, nella Costituzione, hanno mischiato dottrine cattoliche, marxiste, liberali, il più rilevante e traumatico. Altri (la Costituzione ne è piena, ma necessariamente) sono più sfumati o, almeno, più abili nel "frullare" insieme le varie e opposte tendenze. -

“E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare””. Era il 13 febbraio 1929 e Pio IX, parlando a un gruppo di professori e studenti all'Università Cattolica, definiva Mussolini “l'uomo della Provvidenza. Le firme sotto i documenti dei Patti Lateranensi erano ancora fresche. Dopo sessant'anni, era stata archiviata la “questione romana” e un concordato fissava i rapporti giuridici fra Stato e Chiesa. Il fiuto di Mussolini non sottovalutava il peso dei cattolici e l'importanza , per la sua politica, di un'intesa con il Vaticano. Il primo programma dei Fasci prevedeva il “sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose”, ma una volta approdato alla soglia del potere, cancellò quel passato al punto da proclamare: “Il fascismo non predica e non pratica l'anticlericalismo”. “La conciliazione mi dava in mano i cattolici” dichiarò nel 1936, parlando dei Patti Lateranensi. Fra questi, e al primo posto nell'obiettivo di Mussolini, c'erano gli uomini del Partito Popolare di don Sturzo, gli antenati dei democristiani di ieri e di oggi, che seppure ridotti al silenzio dalla svolta dittatoriale del fascismo, erano sempre un punto di riferimento per quella parte del clero e dei cattolici non ancora allineati del regime. Poco più tardi, quando il fascismo imboccò in velocità la strada del totalitarismo, le preoccupazione del Vaticano furono quelle di ottenere, con un trattato che regolasse i rapporti Stato – Chiesa solide garanzie di libertà d'azione educative spirituale, organizzative di associazioni, gruppi giovanili, scuole, oratori, che contrastava palesemente con il tentativo fascista di monopolizzare l'educazione (addestramento) giovanile. Si poteva andare avanti. Il cardinale Merry del Val, il 4 ottobre quando celebrò il settimo centenario della morte di San Francesco dedicò al duce un “soffietto”: “Visibilmente protetto da Dio, ha sapientemente rialzato le sorti della nazione, accrescendone il prestigio in tutto il mondo.” Era l'anno 2011………………
Merita un maggior approfondimento il tema discusso dal prof. Cormio, purtroppo non a livello popolare, educato al "populismo". Quando si parla della Chiesa, si toccano argomenti profondi educativi di "indottrinamento", non facili da risolvere. Ancora più complesso dare lettura del Vangelo e analizzare quello che dovrebbero essere le regole dell'etica di vita umana così ben dettate da Gesù detto il Cristo, interpretate e analizzate a seconda delle posizioni socio-politiche di ciascun capo di fazioni di masse popolari religiose (a convenienze? Basti guardare le profonde fratture e divisioni avvenute nell'arco storico). Personalmente sono più che convinto, il "cristianesimo" e ben lontano dalla sua effettiva padronanza culturale umana, così come si è evoluta la condizione socio-politica-economica della nostra società: radicata più che mai nella secolare "ipocrisia cattolica". Non molto tempo fa, un partecipante ai vari forum di questo magnifico giornale on-line scrisse, rifacendosi alla Repubblica e ai suoi sviluppi socio politici, di un pensiero letto sul frontespizio di un tetto di un fabbricato all'uscita della stazione Termini di Roma: "1947, la Repubblica: I cazzi sono cambiati ma i culi sono sempre quelli”. Una frase alquanto populista ma veritiera in determinati sviluppi repubblicani e potere politico. Quel potere politico che sempre ha avuto consensi e contraddittori, appoggi anche elettorali del popolo cattolico, quando si tratta di difendere privilegi politici e di proprietà, venendo meno agli insegnamenti evangelici: “Date a Dio quello che è di Dio, date a Cesare quello che è di Cesare”, e tanti altri ancora. Gesù detto il Cristo fu condannato a quel patibolo infame non dal potere politico, ma dal potere religioso e dal popolo. Pilato se ne lavò le mani non trovando nessuna colpa per condannarLo e lo consegnò ai sacerdoti e al popolo, proponendo uno scambio: "Volete libero Gesù o Barabba?" Scelsero Barabba! "Vox populi vox Dei"? Che grande bestemmia! E qui che si gioca il nostro presente e futuro.

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