Recupero Password
Un prete tutto scuola e famiglia: don Paolo Bartoli
15 gennaio 2009

Rende interessante la vicenda di don Paolo Bartoli il fatto che entro una scelta di vita, tesa a privatissime missioni nella Chiesa e nella società per investitura dei familiari, sia emersa decisa la volontà un'attività elettiva, perseguita per inclinazione e con fermezza contro casi e persone (le “croci”, di cui parla) in una globale concezione di vita fondamentalmente laica, professionale, che fece del suo insegnamento una funzione compiuta in sé, scientifica, e del suo senso di familiarità un culto della propria gens, un orgoglio gentile. Se, narrando la sua vita, cita molto spesso la “Provvidenza”, questa appare qual deus ex machina per personali casi. Il senso secolare dell'esistere si manifestò anche in un culto della personalità, a cominciare dalla propria, cui eresse un monumento e che offrì per modello ai giovani e posteri della famiglia; e nella citazione, mai omessa, di titoli sociali e professionali di chicchessia, senza sospettare che tal vanto fosse cristianamente “vanagloria”. Ebbe un concetto tanto alto della nobiltà, che dell'Arcivescovo di Pisa, mons. Capponi, riportò il titolo di “Conte” e marcò la qualifica di “patrizio fiorentino” e della propria famiglia cercò qualche traccia di nobiltà. Esercitò per orgoglio personale e fede nell'utilità consociale una diuturna esibizione nelle istituzioni e in pubblico: inviò il discorso “Nella venuta di mons. Achille Salvucci” alle massime autorità politica (Mussolini) e religiosa (papa Ratti), ricevendo mediate espressioni di gratitudine (e benedizione apostolica); pronunciò discorsi in eventi della Chiesa (inaugurazione del Seminario regionale nel 26), sì, ma presenti autorità civili, politiche e militari; in fatti civili e militari (il “sottovia” nel 33, il Monumento ai caduti nel 30); in atti squisitamente politici (benedizioni di gagliardetti fascisti) con glorificazione di Mussolini. Nel benvenuto a Salvucci egli accusò lo Stato italiano del declino del liceo del Seminario diocesano, per cui Molfetta era stata detta “Atene delle Puglie”. Tuttavia fece quei discorsi ed atti “pubblici” ed accettò titoli di regia concessione per fascino della personalità (“Cavaliere della Corona d'Italia” nel 10, auspice il Ministro dell'Interno) e per la meritevole docenza in scuole di stato, al cui termine (31) per proposta del Ministero dell'Educazione Nazionale e di Mussolini fu dal re nel 32 nominato Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia. Ma credo di poter liberare don Paolo dalla taccia d'incoerenza, perché egli, come il papa che l'attuò, diede funzione salvifica alla Conciliazione tra Stato italiano e Chiesa e ciò comportava i fronzoli panegiristici per il regime ed il suo capo. Il monumento elevato a sé consiste in un'analitica autobiografia (edita per celebrare “le nozze d'oro del mio sacerdozio”) e in un corpus d'opuscoli, depositati a perpetua memoria nella Biblioteca “G.Panunzio”, dove m'ha condotto una copia di quella, reperita con una del benvenuto nella biblioteca “V.Zagami”. La copertina dell'autobiografia già denuncia la mente “secolare” del Bartoli, perché su quattro titoli tre sono laici, uno ecclesiastico (che precede): “Arcid. Cav. Uff. Prof.”, e similmente la copertina dell' “Accademia”, stampata in suo onore per il cinquantennio sacerdotale: “Mons. Cav. Uff. Prof.”, e quella del benvenuto: “Cav. Uff. Prof.” prima del nome, cui segue l'apposizione “Canonico Arcidiacono della Cattedrale”. Ma il frontespizio interno dell'autobiografia muta il rapporto e recupera un altro titolo ecclesiale (canonico arciprete) prima del “Prof.”. Non sfugga che l'espressione “nozze d'oro” è in sé “mondana”. L' “Accademia” corregge in “messa d'oro”. A quelle “nozze” Paolo conferì una pompa magna, che grandeggia nell' “Accademia” con messaggi e testimonianze di personalità ufficiali e d'alunni, dei quali ultimi non cito più di due nomi: i Professori Avv. Saverio Nisio e Dr Giulio Cozzoli. Devo tuttavia precisare che tutta la narrazione della vita è organizzata in cinque periodi, delimitati dall'acquisizione di titoli nella Chiesa: dalla nascita al Sacerdozio, di qua in successione al Parrocato, al Canonicato Sagristato, all'Arcidiaconato, infine al “50° anno di Sacerdozio”. Inoltre, quando riepiloga la sua vita, la lunga rassegna dei titoli ecclesiastici precede quella del suo insegnamento. Al sacerdozio Paolo fu avviato giovanissimo e i parenti esercitarono una persuasione ad esso tra occulta e palese. Né la vicenda seicentesca di Virginia de Leyva, in arte (manzoniana) Gertrude, addomesticata da bambina al monastero con “Bambole vestite da monaca […] poi santini che rappresentavan monache” (Pr.Sposi, IX), né quella della “capinera” di Verga, narrata nel tempo della fanciullezza di don Paolo (nato nel 1866), avevano dissuaso da certe forzature. Del resto l'odierno grido di dolore vaticano per la carenza di vocazioni di suore (“vocazione” significa “chiamata”, a cui si risponde) non minaccia una simile pressione con buona pace dell'illuminato don Lisander (Manzoni)? Sostituire il chiamante e per “pio” fine vestire le impudiche Barbies con le lato sensu cocolle? Vero che il Bartoli scriva nell'autobiografia “Sentendomi chiamato allo Stato ecclesiastico”, ma non dice da chi né parla di sacerdozio, bensì di collocazione nella Chiesa. Ecclesiastici erano stati ed erano nelle due famiglie il prozio Sergio Bartoli, celebrato latinista e penitenziere, una materna pregiata e passata parentela cappuccina di nome Mancini, come i due viventi cugini preti. La madre, Serafina Mancini, “all'età di circa 4 anni, mi vestì a S. Luigi […] e, per varii anni seguenti […] a Calvario, con sacco rosso e croce di legno sulle spalle nelle stesse Processioni [prepasquali]: quasi presaga del mio Sacerdozio e delle croci, che avrei sopportate durante tutta la mia vita”. Il padre, Sergio, dopo un primo anno (all'età di cinque) d'istruzione privata in casa d'un prete un po' plagosus, come l'oraziano Orbilio (“palmate, che mi facevano vedere le stelle”), a sei anni d'età e per i quattro d'istruzione elementare l'allogò come esterno nel Collegio-convitto Panunzio, diretto dal Canonico, preside nel liceo. Indi passò decenne ed in abito talare al Seminario per gli otto anni di ginnasio e liceo. “I miei parenti, vedendomi vestito a prete, mi auguravano che facessi la riuscita del mio prozio, il Penitenziere D. Sergio Bartoli, del quale mi parlavano spesso.” A Gertude dicevano: “che madre badessa!”. Per i pronostici-persuasioni riferiti, per la suggestione della figura del prozio, vantato come maestro anche dal Fornari, per le chieriche parentele materne, per il corso di studi con docenti, che via via ascendevano in carriera ecclesiastica, per l'affetto ai suoi professori, che si tradusse in vitalizia riconoscenza, il giovane Bartoli accettò il sacerdozio, via di prestigio e securtà esistenziale. Ma per il suo amore agli studi maturò in lui spontaneamente l'altra vocazione, quella matematica. Sicché, mancandogli sei anni all'età presbiterale, per non sprecare il suo tempo, andò a studiare a Pisa, dove si laureò nell'88 a ventidue anni e ai cui docenti serbò gratitudine, in particolare al prof. Dini “mio Angelo tutelare in tutta la mia carriera di Professore”. Che iniziò a Montecassino (1888-89) per una casuale coincidenza, propiziata da un suo incontro con l' “abate” Fornari a Napo-li, a cui, volendo dopo lunga tenzone con il vescovo Rossini compiere a Roma gli “studi sacri”, era andato a chiedere una raccomandazione ad un cardinale. La docenza continuò per queste tappe: nel Liceo vescovile di Molfetta due anni (89-91) per nomina di mons. Rossini, nove anni (91-99) per nomina consiliare. Delle agitate vicende politico-scolastiche prima e dopo la nascita del liceo comunale importa rilevare che a questo trasmigrarono don Paolo e fino al termine della loro attività don Giovanni Panunzio, preside, e don Corrado Salvemini, docente di storia. Poiché vide scemare i suoi voti in consiglio comunale, don Paolo, sacerdote dal 90, sicuro d'un'avversione dei politici ai preti docenti, per ripararsi dai rischi dell'insegnamento a Molfetta, sostenne due concorsi ecclesiali: a penitenziere (97) e canonico curato (99) della cattedrale. Ma restò insegnante di matematica e ne constateremo la causa. Più che seguire la varia vicenda scolastica del Bartoli, prima avventizio poi ordinario, in Puglia e altrove, importa segnalare la stima del suo valore: fu chiamato ad istituire un liceo nel Seminario di Trani, designandone i docenti; nell'ispezione per il pareggiamento del liceo vescovile (92) “schiacciò” (verbo del preside Panunzio) l'ispettore; questi in ispezione al regio liceo di Trani volle ascoltarne una lezione di fisica e poi, incantato, proporgli, previa domanda, una cattedra statale. Ma don Paolo chiese l'indisponibile liceo di Trani, per non lasciare Molfetta; nel 1900 organizzò e coordinò nel liceo comunale di Molfetta “un Congresso dei Professori di Matematica delle Puglie, e feci il Discorso «Sull'importanza della Matematica » che pubblicai”. Sopravvive. Nel 15 fu straordinario (a Lucera), il 25 tornò ormai ordinario a Molfetta, il 31 ottenne il pensionamento ed ebbe l'onorificenza già detta. Ma il vescovo Salvucci lo volle docente nel Seminario fino al 1940, anno in cui aveva 74 anni. Morì nel 1945. Per la sua professione matematica il Bartoli subì una sorte di mobbing (alcune delle “croci”) da suoi vescovi. Non è importante la pressione di mons. Corrado (vescovo dal 90 al 94), ostile ai capelli troppo neri di don Paolo (“tingiti i capelli!”). Altrettanto avverso ai segni della giovinezza fu mons. Picone (vescovo dal 95 al 17), che, avendolo nel 97 per un motivo tematico escluso dal “penitenzierato”, nel 99 gli negò per l'età e l'aspetto anche il “canonicato curato”. Una profonda avversione alla professione matematica di don Paolo ebbe il vescovo Rossini, sia per ostilità alla laicità intrinseca nella materia, su cui nulla poteva l'oratoria, base d'un gran numero di professioni, tra cui la predicazione (“tu hai la laurea, va [= va'] a fare il professore; i sacerdoti hanno degli obblighi che i secolari non hanno”: insomma era troppo matematico per essere devoto prete), sia per il rifiuto della cattedra a Molfetta, oppostogli dal Bartoli per lealtà verso il priore di Montecassino e riconoscenza al Fornari. Rossini, per concedergli gli ordini minori prima e il suddiaconato poi, pretese invano che lasciasse Montecassino per Molfetta. Finito l'anno scolastico Paolo, già minacciato di negazione del suddiaconato, tornò a postularlo e fu sottoposto al severo esame di ben sette titolati del Seminario, tra cui il Panunzio, dopo questa premessa del vescovo “questi Signori diranno che tu sai la Matematica, ma Teologia non ne sai”. La prova fu superata brillantemente, ma il Rossini, come per gli ordini minori, così per il suddiaconato lo mandò fuori diocesi da mons. Bruno, vescovo di Bitonto e Ruvo. La cosa si ripeté a fine d'anno solare per il diaconato. L'anno dopo Rossini moriva, ma ad ordinare sacerdote il Bartoli fu ancora a Ruvo mons. Bruno, qual amministratore apostolico di Molfetta. L'autobiografia registra però un senso pratico nei rapporti con la società civile ed ecclesiastica, che in parte ripagò don Paolo da incomprensioni e scacchi. La raccomandazione sull'esempio della Chiesa fu il sistema promovente nelle società chiuse dell'ancien régime, la via per privilegi, fatta propria anche dalla Massoneria. Ai tempi di Paolo però erano già stati istituiti i concorsi nello stato e perfino nella Chiesa, salvi i capricci personali d'un vescovo. Paolo già da adolescente fruì della raccomandazione del procugino don Pasquale Mancini, che gli procurò in Seminario la Prefettura di camerata, esonerante dalle rette. Il giovane capì il “metodo” e l'applicò: a Pisa si recò con due lettere, una del rettore Pedata al conte arcivescovo, di cui divenne “familiaris”, l'altra, per cui con modica spesa ben abitò e ben si cibò, da un procugino, imparentato con il magazziniere dei sali e tabacchi. Al Fornari, per averne una raccomandazione, si recò con una lettera d'un parroco, già suo docente, al molfettese don Coppolecchia, impiegato nella Biblioteca, di cui Fornari era Prefetto. Ometto altre notizie simili, per dire la produttività del credito sia del prozio, per esempio per Fornari, sia proprio, per cui, qual professore del figlio, ottenne dal capo sezione del Fondo per il Culto un supplemento di congrua per la sua parrocchia (S.Corrado). E da un suo docente pisano, Ulisse Dini, divenuto senatore del regno e relatore del disegno di legge per l'immissione di docenti nei ruoli, l'ottenne anche per i vincitori non nominati, come lui, nel concorso del 1901. Tale il sacerdote, il professore e l' “uomo di mondo”. Ma c'è un altro aspetto del carattere d' “uomo di mondo”, il culto della famiglia Bartoli, la cui storia ricostruì nei termini, in cui la compendio. La famiglia non gli ascrisse, fanciullo, solo l'eredità del prozio, ma anche l'auspicio-missione che “alla terza generazione la famiglia risorgesse per opera mia”. I Bartoli molfettesi vennero da Roma “in una rivoluzione (forse il sacco di Roma del 1527”. I titoli “civili” della sua gens furono con i Borbone il sindacato del bisavolo “di condizione signorile”, notar Onofrio e con Giuseppe Bonaparte il decurionato nel Comune; inoltre dal 1808 al 1811 l' Esattoria della Fondiaria; la nomina del prozio, fratello del notaio, nel “Giury della Pubblica istruzione per la Provincia di Bari”, istituito dal Buonaparte. Un altro cataclisma storico causò la rovina dei Bartoli: un'imprecisata “rivoluzione” che incendiò le “carte” dell'Esattoria. Il notaio, tornati i Borbone, fu condannato a rifondere 40 mila ducati (170 mila lire). Fu un tracollo patrimoniale e civile: vendita delle porpirtà, tra cui il “palazzo” di Via Cappuccini 23; il terzo dei quattro figli maschi non compié gli studi, il quarto, nonno omonimo di Paolo, nemmeno li iniziò. Il nonno con fortuna riorganizzò la famiglia in un' “arte” e riuscì ad impiantare una distilleria. Suo figlio, Sergio, riscolarizzò un figlio, il nostro Paolo, aspirando al risorgimento familiare, cui il giovane s'adattò, parte sommettendosi al sacerdozio, parte realizzando l'inclinazione naturale. Paolo era dodicenne, quando uno zio avvocato lo fece custode dello stemma di famiglia (su timbro): altro gravame morale, cui il ragazzino si sobbarcò. Ne accertò l'autenticità (l'avo notaio l'usava per sigillo), ne chiese al Ministero dell'Interno la dichiarazione di nobiltà, ma ottenne solo quella di “cittadinanza” per i titoli civili del bisavolo. Ultimo impegno, durato cinque anni, per il casato fu quello suggerito da un Commissario prefettizio del Comune: “Se al discepolo [Vito Fornari] la città di Molfetta ha elevato un monumento, è giusto che non manchi al suo maestro [Sergio Bartoli] un ricordo”, cioè un ritratto nella Galleria degl'illustri. Mauro Uva traccia un profilo del penitenziere. Nell'autobiografia don Paolo riepiloga: “oggi mi sembra che si sia avverato l'augurio dei parenti, di fare la riuscita del Penitenziere Bartoli mio prozio […] Essendo Professore, mi sono sempre interessato per la buona riuscita dei miei congiunti nelle scuole ginnasiali e liceali […]”. Detto che i parenti seguirono l'esempio di suo padre nell'istruire i figli, ricorda due cugini Bartoli, funzionari in due Ministeri, un procugino “Primicerio” e “parecchi congiunti magistrati, avvocati, medici, professori”. “Così si è avverato l'altro augurio dei miei parenti che alla 3ª generazione, per opera mia, si sarebbe risollevata la famiglia”. Ed esorta: “Mantenete alto il prestigio della famiglia, e fate onore allo stemma, col candore dei costumi e con le vostre virtù”. Di dimensione terrena, non ultraterrena.
Autore: Antonio Balsamo
Nominativo  
Email  
Messaggio  
Non verranno pubblicati commenti che:
  • Contengono offese di qualunque tipo
  • Sono contrari alle norme imperative dell’ordine pubblico e del buon costume
  • Contengono affermazioni non provate e/o non provabili e pertanto inattendibili
  • Contengono messaggi non pertinenti all’articolo al quale si riferiscono
  • Contengono messaggi pubblicitari
""
Quindici OnLine - Tutti i diritti riservati. Copyright © 1997 - 2025
Editore Associazione Culturale "Via Piazza" - Viale Pio XI, 11/A5 - 70056 Molfetta (BA) - P.IVA 04710470727 - ISSN 2612-758X
powered by PC Planet