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Ti voglio bene, Tonino
15 aprile 2018

Della nostra infanzia ricordo soprattutto la miseria. Ma conservo anche il ricordo delle cose semplici e pulite di cui vivono gli ultimi. Mi scuserete, ma desidero esprimere, innanzi tutto, quanto sia importante per me, e per noi Alessanesi, il fatto che le spoglie mortali di mio Fratello Tonino siano racchiuse nella nostra terra, da cui egli stesso è generato, di cui ha condiviso insieme a tutta la popolazione i fasti e le miserie, e nelle cui membra ha voluto ritornare per condividerne le speranze future insieme alla sua gente. Io mi adoprerò, d’accordo con i miei parenti che ne sono anch’essi entusiasti, che le sue ultime volontà terrene vengano rispettate, anche se si dovessero discostare da eventuali future richieste ecclesiastiche. Premetto quale, secondo me, era il concetto di Santità secondo il pensiero di mio Fratello. Santi non si nasce, lo si diventa, e tutti siamo chiamati alla Santità, perché non è questo un processo selettivo ma una vocazione per tutti. La santità è presente nel gesto del pescatore che tira le reti a riva, nell’abbraccio di due innamorati che si scambiano tenere effusioni; la Santità è nella Prima Ballerina del Bolshoi di Mosca come nell’anziana claustrale. Desidero parlare di mio fratello Tonino per cercare di farvi pervenire il suo messaggio: come, cioè, s’imbocca la via giusta, senza cercare di essere diversi da tutti gli altri, ma essendo semplicemente innamorati di Dio e dell’uomo. Incomincio, perciò, a parlarvi della sua prima giovinezza. Frequentò, dietro l’incoraggiamento di nostra madre, prima gli anni del Ginnasio presso il Seminario Vescovile di Ugento e poi il Liceo al Regionale di Molfetta, distinguendosi nello studio per risultati eccellenti e per il suo spirito gioviale. Continuò la sua formazione teologica a Bologna, presso l’Onarmo, dove incontrò il Cardinal Lercaro e si preparo così, oltre alla formazione culturale e spirituale, anche all’impegno pastorale nell’ambito del lavoro. Era previsto, infatti, in questo Seminario, un piano formativo di azione apostolica coordinata con l’intervento dei Superiori, in una zona industriale di Bologna, seguendo una precisa linea di azione, lo studio sociologico della zona Pastorale nell’inserimento della vita liturgica domenicale delle Parrocchie interessate, gli incontri con i lavoratori delle singole fabbriche. In questo modo i chierici toccavano con mano la realtà sociale e verificavano la loro vocazione a questo particolare modo di vivere il Sacerdozio. «L›impatto di Tonino con la Pastorale del mondo del lavoro fu felice: Il Seminario era, infatti, il luogo dove si insegnava a vivere da poveri, con un intento soltanto. formarsi per aiutare i poveri e raccogliere il messaggio cristiano come l’unica salvezza». Mio fratello accettò in pieno questo modo di vivere nel suo cuore e nella sua mente. Della nostra infanzia, ricordo soprattutto la miseria e le difficili condizioni di vita. Ma insieme alla miseria della nostra terra, conservo il ricordo «delle cose semplici e pulite di cui vivono gli umili: tepori di focolai nelle lunghe sere d’inverno, preghiere mormorate intorno alla tavola, sapore di pane (solo pane!), profumi di campo e di bucato, interminabili veglie all’aperto nelle notti d’estate, in cui il racconto dei più vecchi si carica di inesprimibili nostalgie e fermano un poco i sogni dei più giovani». Mio padre io non lo ricordo; quando morì, Tonino aveva appena 6 anni, Trifone 4 e io nemmeno due: mia madre rimase sola a badare a tre ragazzini in pieno tempo di guerra. Sicuramente la forza della sua fede avrà rimosso il velo di tristezza che spegneva i nostri sorrisi infantili. Erano, questi, anni di pane duro e di privazioni, di sacrifici e di ricordi struggenti. Tonino è riconoscente alla sua terra anche per questo. Dirà, nella sua prima omelia episcopale in Alessano: «Grazie, terra mia, piccola e povera, che mi hai fatto nascere povero come te, ma che proprio per questo mi hai dato la ricchezza incomparabile di capire i poveri e di potermi oggi disporre a servirli». Credo che i cinque anni vissuti a Bologna siano stati sicuramente decisivi per la sua formazione. L’esperienza fra questi preti operai che si cimentavano con la realtà del mondo del lavoro, la Bologna del Cardinal Lercaro del 1953, piena di iniziative nel campo sociale e liturgico, hanno allargato senz’altro i suoi orizzonti umani, tanto che a fatica se ne è distaccato, quando fu richiamato in diocesi, nel Seminario Vescovile, dopo aver conseguito la Licenza in Teologia presso la facoltà Teologica di Vengono Inferiore retta dall’allora cardinale Montini, il futuro Papa Paolo VI. Nella sua terra, però, ha incominciato subito a mettere a frutto le sue esperienze, contagiando con il suo dinamismo e le sue iniziative anche il clero locale e i ragazzi che si affacciavano alla vita. Era lui che con la famosa Seicento multipla faceva il giro della diocesi per organizzare incontri formativi e dibattiti, la campagna contro il divorzio e contro l’aborto, convegni e tavole rotonde sulla salvaguardia del creato) I suoi rapporti con noi fratelli sono stati quasi paterni: lui arricchiva con la sua esperienza la nostra formazione culturale e religiosa, integrando quella che ci veniva impartita da nostra madre. Era una grande festa quando, nei periodi estivi e in occasione delle feste natalizie e pasquali, rientrava in casa. Lo aspettavamo con ansia e trepidazione perché ci faceva partecipi di tutte le novità culturali e sociali di cui si era arricchito stando fuori. Era per noi come un padre, anche se lui non ne ha assunto mai l’autorità. E anche lui s’integrava con le nostre piccole esperienze. Siamo cresciuti così, condividendo le nostre gioie e le nostre amarezze. Incominciò, forse con un po’ di timore, la sua missione nella città di Tricase, che in poco più di tre anni riuscì a plasmare sulla cadenza della sua parola e dei suoi gesti, fino al punto che, quando arrivò la “brutta notizia” del suo trasferimento ad altri incarichi, pianse tutto il popolo insieme a lui. Forse in molti, che lo stimavano come prete dai gesti concreti, in quel lontano autunno avranno temuto che la mitria mummificasse la sua personalità: una notizia tranquillizzante arrivò dopo appena pochi giorni dall’inizio del suo episcopato, quando si diffuse la “scandalosa notizia” che era stato denunciato alla Magistratura per aver partecipato ad un blocco ferroviario organizzato dai lavoratori delle acciaierie di Giovinazzo, minacciati di licenziamento. A fatica si allontanò dalla riva per prendere il largo, e si portò a Molfetta col suo zaino privo di oro e di argento, ma ricco di tanta umiltà e povertà. Si presentò col Pastorale e la Croce pettorale di legno d’ulivo, dono dei suoi compaesani; con al dito la fede nuziale di nostra madre come anello pastorale e con lo stemma raffigurante la Croce alata di Alessano, con un chiarissimo programma come motto: «Ascoltino gli umili e si rallegrino». Poi, quando nel 1985, il suo Maestro e Discepolo mons. Bettazzi lo propose alla Presidenza Nazionale di Pax Christi, divenne la voce più inquieta e trascinante del pacifismo cattolico. Impresse una svolta determinante all’Associazione, e il suo gridare a voce alta la Pace, l’antirazzismo, l’accoglienza delle diversità, la convivialità delle differenze, il riscatto del nostro Sud e di tutti i Sud della terra, ha varcato i confini della diocesi e della nazione. Grazie a lui, Molfetta è divenuta, da allora, la culla dove sono riposte le speranze dell’umanità nonviolenta, il punto di riferimento dove convergono gli ideali di tanti giovani che, nonostante tutto, guardano a un futuro di bontà e di onestà, riflettendosi nella trasparenza dei suoi occhi e del suo stile di vita. Ti voglio bene, Tonino, e ti ringrazio per la splendida poesia che hai profuso nelle lettere a Massimo ladro e a Giuseppe avanzo di galera, che hanno accarezzato l’animo dei miei figli Stefano e Federica. Ti ringrazio per le tue “parole d’amore” che hanno trasfigurato il volto di Raffaella e Francesca. Ti ringraziamo tutti per il tuo tanto soffrire sulla cattedra del dolore vissuto con grande dignità. Sei stato uomo fino “in cima” nella tua sofferenza, quando, nella penombra della tua camera, come gli antichi patriarchi, hai alzato la tua mano benedicente sul capo di tutti coloro che si inginocchiavano al tuo capezzale, dai tuoi confratelli ai vecchi coinquilini di episcopio. E da ognuno di loro ti sei fatto benedire. Hai trasmesso in noi tanta pace e tanta serenità, e non abbiamo più paura. Ho pianto e ho compartecipato alla tua sofferenza per l’incomprensione e la solitudine in cui ti sei ritrovato durante la guerra del Golfo e nella polemica sull’installazione degli F16 in terra di Puglia. Mi sono inorgoglito di essere tuo fratello quando hai riempito la casa di sfrattati, di emarginati, di disperati, di giovani in cerca del senso del vivere. Ho condiviso la tua pena e la tua tristezza quando ti ho visto dagli schermi televisivi, in pieno agosto, in mezzo a una fiumana di profughi Albanesi, là, sul molo del porto di Bari, a denunciare con passione l’assenza dello Stato, già impegnato dalla più proficua attività di Tangentopoli, attirandosi addosso anche l’ira e il sarcasmo del Ministro degli Interni. Anche noi, come te, ci sentiamo figli di quella straordinaria creatura che è la madre Celeste, che hai voluto cantare come Donna dei nostri giorni. Quando, in quella assolata giornata di agosto del 1992, dagli schermi televisivi rimbalzò la notizia della tua proposta di «dar vita ad una grande forza di Pace sovrannazionale che invadesse le zone di guerra», capii veramente, forse anche con un brutto sentimento, che stavi raggiungendo il momento supremo della tua profezia e del tuo sacrificio; sì, del tuo sacrificio per tutti i poveri del mondo, perché in quel momento diventavi veramente uomo planetario. Ci tenesti col fiato sospeso e incollati per un’intera settimana davanti agli schermi televisivi, finché non sentimmo dalla tua viva voce, da quel teatro di Sarajevo illuminato dalla fioca luce di poche candele, che «l’ONU dei potenti si ferma Ile quattro del pomeriggio, mentre l’Onu dei poveri si muove anche di sera». Nessuno deve pensare che con la tua morte sia tutto finito. n quella tomba, che hai voluto nella tua cara Alessano, non ti sono i resti ma i semi che daranno frutti abbondanti come l’hanno promesso le migliaia di ragazzi e ragazze che hanno ledo «ciao, don Tonino, continueremo a sognare ad occhi esperti cieli nuovi e terre nuove». Rimani, per noi sempre il “folle di Dio” e “il Pastore diverso” che in quel vespro di aprile, con l’altare rivolto al mare, racchiuso in una cassa di legno, su un palco di nuda pietra, all’aperto, in mezzo alla folla sterminata della tua gente, sfogliavi, con la complicità del soffio dello Spirito, l’Evangelo, unico sostentamento della nostra povertà. Su quella lastra, insieme alle spoglie mortali di mio fratello, furono deposte, quasi come in un rito sacrificale, anche le sue speranze di «fioritura di una nuova primavera». Mancherai al Popolo della Pace, agli ultimi, ai costruttori giustizia, alla Chiesa. Tanta gente, però, che lo ha conosciuto personalmente o attraverso i suoi scritti, continua a venire a trovarlo sulla sua tomba e ne riparte con nuovi insegnamenti che inondano la mente fertile e le speranze dei nostri giovani Anch’io vado a trovarlo quasi giornalmente sulla sua tomba, e continuo sempre ad attingere forza per temprare la condivisione che abbiamo sperimentato quando era in vita. Marcello Bello (Ed Insieme)

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