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Sperare? Servono indignazione e coraggio
15 aprile 2024

È speranza la primavera? Si direbbe di sì, a guardar bene, attorno alla nostra città, dove fiorisce sui rami dei ciliegi, dei mandorli, dei peschi. Perché cosa sono, ognuno di quei fiori, se non la speranza viva che essi diventeranno frutti, attesi con pazienza e da raccogliere in un tempo successivo? Nell’antichità classica spesso la speranza, venerata come una divinità, era rappresentata, appunto, in piedi con un bocciolo di fiore nella mano destra e la veste sollevata sul fianco sinistro. E restando nel paragone iniziale con la primavera ci piace ricordare che Aristotele affermava che sperare era un’arte difficile per tutti, ma per chi era paziente aveva sempre dei risultati. “La pazienza è amara ma il suo frutto è dolce” diceva. E per noi, oggi, in questo nostro tempo, così pieno di preoccupazioni e di paura, quando ogni giorno ci assalgono parole come terrore e angoscia, e antichi e nuovi timori ci fanno immaginare un futuro prossimo e lontano incerto, in cui la guerra sta diventando personaggio principale e verso il quale ci sentiamo impotenti e spaventati, ha un senso parlare di speranza? Magari ci viene la voglia, come spesso sta accadendo, di ritirarci nel nostro guscio, incrociare le dita e attendere solo che tutto vada per il meglio per i fatti suoi. L’angoscia è una emozione negativa. Nasce e prospera nel nostro sottosuolo e possiamo, ormai sempre più spesso, intravederla negli occhi delle persone che incontriamo. A me, devo dirvi la verità, per molto tempo, la parola speranza non piaceva o, quantomeno, ingenerava un senso di dubbio sulla sua vera efficacia. Sembrava contenesse l’idea che, quello che non andava nel mondo, potesse cambiare solo per un intervento divino o che cadesse come manna dal cielo e contenesse stimoli molto forti come rassegnazione, impotenza, immobilismo. Un po’ condensato in quel motto fascista che era l’ “aspetta e spera che l’ora si avvicina”. Però poi, guardando bene l’etimologia della parola, mi rendevo conto che la stessa aveva tuttavia dentro un dato molto positivo. Speranza viene dal latino “spes” parola a sua volta collegata alla radice sanscrita “spa” che significa “tendere verso una meta”, cioè tendere verso un miglioramento o un cambiamento, partendo da una situazione di malessere, di frustrazione, di impotenza, di angoscia, di paura. Ma allora tendere a una meta implica un moto attivo di ognuno di noi e di una intera società perché speranza significa non darsi per vinti, non cedere alla dis-perazione e alla paura, sapersi rialzare se si è caduti e ricominciare testardamente daccapo. Maria Zambrano scrive che la speranza è un ponte, è l’impulso che ci destina alla ulteriorità, ad uscire da ciò che ci imprigiona e incatena, è la voglia di continuare ad esistere, ad esistere al meglio, anche in un clima e in un regime di incertezza. Portare attenzione a questo aspetto ci aiuta a discriminare che cosa ci condiziona e che cosa invece può essere fatto a partire da noi, in modo attivo e responsabile, non giudicando quello che percepiamo di non riuscire a fare, ma dando valore all’azione che compiamo, fosse anche una sola. Costruire la speranza! Non ci sono regole da suggerire per costruirla, però, intanto, non bisogna mai accontentarsi della vita che si ha, ma impegnarsi per cambiarla, quando ci sono grandi difficoltà; non arrendersi e, ogni volta che si vede un mondo che non piace, anziché essere scoraggiati, avere fiducia verso tutti quelli che si sforzano di fare la loro parte, perché la speranza, è vero, si costruisce dentro di sé, ma è anche una forma di contagio, “un essere alato” come dice Goethe, che vola su tutti noi e ci insegna l’arte di vivere. Sembra quasi che oggi viviamo anestetizzati, ormai abituati a osservare il male del mondo come se riguardasse altri e non noi (almeno fino a quando non ci tocchi personalmente). Eppure, le battaglie da combattere sono tante: da quelle contro la guerra e per la pace, a quelle per la salvaguardia dell’ambiente o per la tutela della vita di tanti migranti. Battaglie che non ammettono rassegnazione e l’abbandono della speranza che le cose possano cambiare. Prendiamo, ad esempio, il problema della pace. Che significa l’assenza dei pacifisti dalle piazze? Probabilmente, la speranza che le guerre finiscano e che vinca la pace ha bisogno di cambiare modalità di essere vissuta; ci vuole un pacifismo più aggressivo, senza striscioni, arcobaleni, marce, ma un pacifismo che denunci nomi, cognomi e indirizzi Servono indignazione e coraggio Sperare? di tutti i signori della guerra e non solo di quelli che producono le armi, ma di tutti quelli che dalle guerre traggono vantaggio per poterli isolare e colpire proprio nei loro interessi economici. Nella mia vita professionale mi sono sempre accorto che, molte volte, accompagnare pazienti non guaribili verso l’ultimo passo, circondandoli di affetto e di attenzione, non abbandonandoli alla solitudine, ma facendo loro risentire, con speranza, di essere persone amate e rispettate, costituisce un’impresa di grande civiltà e che mostra cosa sia e possa essere l’umanità. Ebbene, sembrerebbe quasi impossibile poter alleviare la sofferenza attraverso la speranza che nasce solo da un gesto d’amore. Hobbes diceva “ad spem sufficiunt levissima argumenta”: cioè, a innescare la speranza bastano ragioni di poco conto. Speranza sostanza incolore e inodore che simile all’aria permette di volare anche nel vuoto. La speranza ha due facce, due figli diceva Sant’Agostino, due bellissimi figli: l’indignazione e il coraggio. Sono gli strumenti di cui bisogna servirsi se vogliamo intervenire nella realtà anche la più dura; l’indignazione ha il compito di dirci quello che non possiamo e non riusciamo più a tollerare, ed è qualcosa di molto lontano dalla rassegnata indifferenza che c’è in giro, e l’indignazione è anche il moto in avanti, che può consentire di avere il coraggio necessario per intervenire e costruire con consapevolezza il cambiamento da situazioni disperate in rinascite primaverili. Senza inutili lamentele. © Riproduzione riservata

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