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Salvemini vs Giolitti in Parlamento
15 gennaio 2020

In una lettera barese inviata a Ugo Ojetti il 23 ottobre 1919, Gaetano Salvemini accennava a un «abbonamento» preso «con Giolitti nel 1904», al quale sarebbe rimasto «fedele sempre». Il riferimento non dichiarato era al suo articolo Elezioni meridionali apparso sul quotidiano milanese Il Tempo del 3 agosto 1904, in cui polemicamente, per le intromissioni del ministro nelle elezioni amministrative di Ruvo e Terlizzi, domandava: «quale diritto ha l’on. Giolitti di intervenire in questi affari?». E di conseguenza preavvertiva: «oramai possiamo prevedere con quali metodi l’on. Giolitti farà le elezioni generali». In realtà quell’«abbonamento» Salvemini lo aveva già preso quasi due anni prima sulla Critica sociale del 16 dicembre 1902 quando, riferendosi alle manipolazioni ministeriali nelle elezioni del Mezzogiorno, aveva dichiarato: «Queste infamie, che commise ieri Pelloux e commetterà domani Sonnino, commette oggi Giolitti». Dopo l’intervento del 1904 sul Tempo il meridionalista, invocando il suffragio universale per cambiare la situazione politica del Sud, aveva rincarato la dose nel settembre 1908 al X Congresso del PSI, affermando: «I sistemi di oppressione e di corruzione sono stati sempre, più o meno, usati dal 1860 ad oggi nell’Italia meridionale. Ma, col tempo e con l’esperienza, si sono andati via via perfezionando; e l’onorevole Giolitti li ha resi ormai insuperabili». Sullo slancio, prendendo le mosse dalle scandalose elezioni di Gioia del Colle, Salvemini il 14 marzo 1909 aveva sferrato sull’Avanti! un attacco ancora più documentato e veemente contro Giolitti con un lungo articolo su due pagine L’opera del Governo nel Mezzogiorno. Dall’ampliamento di questo scritto era poi nato nel 1910 Il ministro della mala vita, che lanciava accuse durissime, impietose: «Mentre licenziamo le ultime pagine di questo libro, il “Ministro della mala vita” non è più al governo d’Italia. Ma resta intatto l’esercito dei 150 cialtroni meridionali e dei 100 affaristi liguri, piemontesi, lombardi, ecc., che formano l’associazione a delinquere giolittiana: integra è sempre la “dote” parlamentare, che il “Ministro della mala vita” si è costituita in otto anni di violenze e immoralità, e che egli porta con sé a quei gruppi politici che si alleano volta per volta con lui. E coi 250 lanzichenecchi giolittiani accennano ad associarsi, pronuba la Massoneria, i 110 deputati d’Estrema Sinistra in un’alleanza ignobile e mostruosa, in cui l’anticlericalismo servirà ad illudere gl’ingenui, l’affarismo avrà libera carriera, e le spese del festino saranno pagate dall’Italia meridionale ». Giolitti se la legò al dito e nelle elezioni nazionali del 26 ottobre 1913 fece soccombere Salvemini nei collegi di Molfetta e Bitonto. Dopo la Grande Guerra, favorito dalla neutralità di Francesco Saverio Nitti, Salvemini si ripresentò candidato in Terra di Bari per il Partito dei Combattenti nelle elezioni del 16 novembre 1919 e risultò il terzo degli eletti su dodici. Approdato alla Camera, il neodeputato tra il dicembre 1919 e il gennaio 1920, come rappresentante del Gruppo del Rinnovamento, che radunava i parlamentari combattentisti ma seguiva solo in parte il programma della Lega democratica per il Rinnovamento della politica nazionale, partecipò alle trattative proposte da Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi per una fusione tra interventisti democratici, riformisti, radicali e combattenti. Ma non se ne fece nulla, sia per la scarsa disponibilità dei diversi gruppi a grosse rinunce alla rispettiva autonomia, sia per la differente valutazione del ministero Nitti, di cui Salvemini era oppositore. Ogni altra intesa parlamentare con Bissolati fu vanificata dalla grave malattia dell’amico (che sarebbe morto il 6 maggio 1920 per un’infezione post-operatoria). D’altro canto la prevalenza, tra i combattenti, delle tesi nazionalistiche sulla Dalmazia e l’emer-gervi di inclinazioni filofasciste, lo spinsero nel febbraio 1920 a dimettersi dal Gruppo del Rinnovamento, rimanendo sempre più isolato. Mentre in Italia imperversavano le agitazioni, le violenze e le lotte operaie del “biennio rosso”, a Montecitorio Salvemini, iscritto al Gruppo Misto, pronunciò alcuni notevoli discorsi. La più vivace battaglia salveminiana in parlamento fu quella contro Gabriele d’Annunzio e l’occupazione di Fiume, che gli valse l’invio di due cagnotti dannunziani per infliggergli una bastonatura che però non ci fu, perché i due figuri non rintracciarono il parlamentare né a Roma né a Firenze. Nella seduta del 21 dicembre 1919 Salvemini puntò l’indice sui rapporti tra il Governo civile e le più alte cariche militari italiane, chiedendo come mai il governo presieduto da Nitti non avesse punito né il generale Armando Diaz, per non aver impedito l’impresa di Fiume, né il viceammiraglio Enrico Millo, per aver dato la sua parola d’onore a d’Annunzio di non lasciare mai la Dalmazia, macchiandosi di insubordinazione. In un altro intervento di politica estera, quello del 7 febbraio 1920, in cui Salvemini presentò con Bissolati una mozione a favore del compromesso di Parigi del 1919 accettato dal premier Nitti, contro il patto di Londra del 1915, ebbe un battibecco con Giolitti. Riguardava la questione dell’Albania, occupata dall’Italia dal giugno del 1917 e alla fine della guerra sottoposta al protettorato italiano per mandato della conferenza di Parigi. Sulla base di un documento pubblicato dai bolscevichi, Salvemini accusò Giolitti di aver macchiato la precedente tradizione della politica estera italiana, che difendeva l’autonomia albanese. Ciò era avvenuto durante il quarto governo Giolitti, quando il ministro degli Esteri Antonino Paternò-Castello di San Giuliano aveva firmato col governo austriaco, l’8 maggio 1913, una convenzione «per dividere l’Albania in due zone d’influenza o parti uguali, con diritto di occupazione militare da parte dei due contraenti ». Giolitti, nel 1920 semplice deputato, interruppe più volte Salvemini, dichiarando falso il documento dei bolscevichi e negando che vi fosse stato un accordo del genere, finché non fu invitato dal presidente della Camera Vittorio Emanuele Orlando a «evitare ulteriori interruzioni » all’intervento di Salvemini. Un altro discorso memorabile e contrastato fu quello della tornata parlamentare del 2 luglio 1920, in replica alle comunicazioni presentate il 24 giugno dal presidente del Consiglio Giolitti, subentrato a Nitti, per ottenere la fiducia al suo ministero. Per la politica interna, il programma del Governo prevedeva la modifica dell’art. 5 dello Statuto albertino, stabilendo la sovranità del Parlamento anche per la dichiarazione di guerra e gli accordi internazionali. Inoltre proponeva la nominatività dei titoli (fino ad allora “al portatore”), l’aumento progressivo delle tasse di successione, l’inchiesta parlamentare sulle spese belliche, l’avocazione allo Stato dei sopraprofitti di guerra, l’istituzione dell’esame di stato nelle scuole secondarie (per compiacere i cattolici) e provvedimenti per il Mezzogiorno. Per la politica estera, il programma di Giolitti mirava a rapporti più stretti e cordiali con gli Alleati, amichevoli con tutti gli altri Stati e l’avvio di relazioni regolari anche con il Governo russo. Salvemini concentrò il suo lungo intervento sulla questione dell’Adriatico e sul problema scolastico. Il neodeputato chiese la ripresa dei negoziati con la Jugoslavia, rilevando che la paralisi della politica estera italiana, determinata dall’annosa questione adriatica, dopo l’armistizio era costata all’Italia «dieci miliardi di spese straordinarie militari». Ribadì perciò la necessità di un compromesso «accettato liberamente dalle due parti», fondato sul «riconoscimento del diritto italiano nella Venezia Giulia e sulle città di Fiume e di Zara», sul «riconoscimento del diritto slavo in Dalmazia», su garanzie bilaterali di giusto trattamento delle minoranze italiane e slave, e sulla neutralizzazione dell’Adriatico, in modo da evitare all’Italia e alla Jugoslavia «la criminosa follia di esaurirsi in spese navali» per la difesa delle due sponde adriatiche. Essendo il problema albanese collegato al problema adriatico, Salvemini si disse favorevole alla rinunzia italiana al protettorato sull’Albania. Passando alla politica interna, lo studioso affrontò il problema della scuola, insinuando che l’alleanza del Partito popolare doveva pur avere un costo per il gabinetto Giolitti. Salvemini era d’accordo sull’istituzione dell’esame di stato, ma solo come mezzo tecnico «per rialzare il tono soprattutto della responsabilità degli insegnanti e degli alunni nella scuola». Invece i cattolici volevano l’esame di stato per eliminare il «monopolio di fatto nelle scuole di stato», in quanto il governo «facilitando gli studi, dando passaggi senza esami» nella scuola pubblica, toglieva alunni alla scuola privata. Mentre «l’insegnante non può essere neutro», incalzava Salvemini, lo stato liberale e democratico uscito dal Risorgimento nella scelta dell’insegnante «deve rimanere neutrale», cioè deve chiedere al docente che, «avendo la sua fede e non costringendosi a dissimularla, non pretenda d’imporla d’autorità ai suoi alunni, ma cerchi di sviluppare» in essi le «attitudini critiche e razionali», dando agli alunni «l’abitudine della tolleranza e del reciproco rispetto di tutte le fedi». Al contrario per i cattolici «una sola è la verità: quella tramandata da un ente superiore all’umanità e di cui è depositaria la gerarchia ecclesiastica». Insomma i cattolici domandavano l’esame di stato per «sostituire la scuola privata cattolica alla scuola pubblica aconfessionale». Quanto alle commissioni esaminatrici, esse dovevano essere composte solo da insegnanti pubblici, pagati dallo Stato e indipendenti dagli istituti privati, essendo gli insegnanti della scuola privata impossibilitati alla «libertà di spirito di fronte agli alunni che pagano le organizzazioni scolastiche ». A tale proposito Salvemini invi-tava il ministero Giolitti «a parlar chiaro», per sapere se il Governo era disposto a revocare il provvedimento dell’on. Alfredo Baccelli, che aveva concesso commissioni miste alle scuole private, rette da enti morali, durante il suo breve passaggio alla Pubblica Istruzione con Nitti. Il deputato molfettese chiedeva una precisa risposta del Governo anche sul sussidio alle scuole private, che egli ammetteva solo a livello elementare in funzione della lotta contro l’analfabetismo, ma non per l’istruzione media o superiore, in quanto lo scarso stanziamento disponibile doveva essere impiegato esclusivamente «a migliorare la scuola pubblica». Inoltre Salvemini domandava chiarimenti al Governo circa la sostituzione delle scuole classiche con le scuole popolari: quali garanzie esso dava che in tali abolizioni sarebbe stato escluso «ogni favoreggiamento confessionale? » Altre precisazioni il deputato desiderava dal Governo in merito al «diritto di preminenza e di sorveglianza sulla scuola pubblica» preteso dai cattolici in nome della loro maggioranza confessionale in Italia. Dichiarandosi contrario all’ «insegnamento catechistico» e ai «controlli religiosi sulle scuole di stato», Salvemini chiedeva al nuovo ministero se intendeva ripristinare subito, per l’ammissione all’insegnamento, i concorsi per esami «giudicati da insegnanti governativi, come erano stabiliti dalla legge sullo stato giuridico del 1906» o se preferiva «continuare a tenere in desuetudine quella legge, evitando di fare i concorsi» e assumendo per via di sanatorie ogni anno centinaia di supplenti «oves et boves», purché con una certa anzianità. Salvemini concluse questa parte dell’intervento annunciando che, nonostante fosse sicuro che il ministro della Pubblica Istruzione Benedetto Croce, «uomo di alto ingegno, di nobile carattere, di vita austera e dignitosa», non si sarebbe mai prestato «a manovre di retroscena per risolvere surrettiziamente il problema » scolastico, tuttavia nel dubbio avrebbe votato contro il ministero guidato da Giolitti. Venendo alla politica elettorale del Governo nel Mezzogiorno, Salvemini ricordò come Giolitti fra il 1901 e il 1914 non avesse mai rispettato le autonomie delle province e dei comuni meridionali. Si scioglieva così il grumo doloroso delle sopraffazioni inflitte alle popolazioni del Sud dal «Ministro della mala vita», patito anche sulla propria pelle dallo storico molfettese durante le epiche elezioni del 1913, quando fu sconfitto con le ingerenze prefettizie, le violenze dei mazzieri e i brogli nei collegi di Molfetta e Bitonto. Finalmente Salvemini poteva lanciarsi di persona, senza il diaframma dei libri e dei giornali, in un attacco frontale contro Giolitti. Per rendere la drammaticità di quello scontro, riporto senza commenti alcuni stralci del resoconto parlamentare, iniziando dal passo del discorso di Salvemini a un certo punto interrotto da Giolitti: «Salvemini. […] Badate però, l’Italia meridionale non è più quella di una volta. Una volta erano piccoli corpi elettorali, poche centinaia di persone: si bastonavano 50 o 100 persone e l’elezione era fatta. Ma il suffragio universale ha esteso di molto il numero degli elettori. Il suffragio universale ha portato nell’Italia meridionale un fermento inaudito. Quando, onorevole Giolitti, ella diede il suffragio universale, forse lei non calcolava… Giolitti, presidente del Consiglio dei ministri, ministro dell’Interno. L’ho fatto apposta! Salvemini.. E allora perché impedì di votare nel 1913? Giolitti. Per rompere quelle camorre, di cui ella parla, senza rendersi conto di ciò che il governo ha fatto per impedirle. Dove ci sono delle camorre, il governo non ha la virtù di farle sparire. Salvemini. Ma ha la virtù di consolidarle. E lei, violando la libertà del voto, ha cercato di consolidarle. Vella [socialista]. C’erano le leghe dei contadini. Giolitti. Io non ho sciolto le leghe dei contadini. Salvemini. Nella storia la massa dei contadini meridionali è stata sempre schiava. Giolitti. E allora lo attribuisce a me? (Ilarità.) Salvemini. Ella, che è abitualmente padrone dei suoi nervi, in questa circostanza non si domina abbastanza. Giolitti. No, no, sono tranquillo. Salvemini. Ebbene, il primo momento in cui la massa nostra rurale sentì di essere formata da uomini con diritti eguali a quelli degli altri uomini, è stato quando ha avuto il suffragio elettorale. L’onorevole Giolitti lo elargì, come si dà un pranzo alle otto del mattino; ma dopo averlo dato, non lo rispettò. (Rumori.) Non è cosa passata, perché può ritornare domani. Poi è venuta la guerra. A questa gente noi abbiamo promesso giustizia. Le abbiamo detto: “dovete difendere la frontiera; dopo, quando ritornerete a casa, i padroni di casa sarete voi.” Ebbene, dopo una propaganda di cinque anni di questo genere, guai se questa gente non si sentisse rispettata nei suoi diritti. Questa gente non la frenerebbe più nessuno. E noi, che abbiamo fatto finora opera di calma, se dovessimo essere messi nel bivio di ritornare al passato, o secondare il movimento rivoluzionario, sceglieremmo, senza esitare, per disperazione, questa seconda strada. Abbiamo sentito parlare qui della questione meridionale: ci volete regalare i bacini montani, combattere la malaria, darci le scuole, le strade. Vi ringraziamo di tutto questo. Ma noi vogliamo una cosa sola: il rispetto alla dignità ed alla libertà dell’Italia meridionale. E al resto ci penseremo poi. Non abbiamo bisogno di essere protetti da nessuno. (Approvazioni.) […] L’opera non è compiuta. Una crisi di cinque anni non si assesta in cinque mesi. […] Dinanzi a questo compito, che deve continuare, noi dobbiamo rimanere fedeli al comando dei morti che morirono nella nostra fede. Noi non possiamo disarmare davanti a voi, on. Giolitti, come non disarmammo davanti all’on. Sonnino. […] Io ho fede ardente che questa crisi non sommergerà l’Italia. […] Abbiamo superato la crisi del passato. Supereremo la crisi d’oggi. […] Oggi c’è un generale accasciamento, e tutti gli spiriti accasciati si stringono a voi, on. Giolitti, sperando da voi salvezza. Io non sono accasciato. Non ho fiducia in voi. Ho la certezza che l’Italia si salverà da sé, e non ha bisogno di salvatori. Perciò voterò contro di voi: per il passato prima della guerra, per il passato dopo la guerra, per il presente dopo la guerra. (Vive approvazioni a sinistra – Congratulazioni – Commenti)». Salvemini attribuì una notevole importanza al suo intervento del 2 luglio 1920, tanto che in una lettera romana di tre giorni dopo alla giovane amica Elsa Dallolio, orgogliosamente scrisse: «L’ultimo discorso alla Camera fu un grande successo; ma fu una fatica enorme, che mi ha esaurito». Paradossalmente, la sintesi figurativa più icastica dello scontro tra Salvemini e Giolitti apparve il 2 agosto 1936 sul settimanale filofascista Il Merlo, diretto a Parigi da Alberto Giannini, due anni prima passato per denaro dal fuoruscitismo al mussolinismo pubblicando documenti scandalistici, fake news, caricature e corrispondenze apocrife per diffamare gli uomini della Concentrazione antifascista italiana. Sul quel giornale, con allusione alla sconfitta salveminiana del 1913, si trova La disfida di Molfetta, una vignetta caricaturale di Girus, al secolo Giuseppe Russo. In essa, su scalpitanti e sbuffanti destrieri, si affrontano in corazza e lancia in resta due cavalieri: Salvemini, donchisciottesco e occhialuto, e Giolitti, autentica incarnazione del “Potere”. © Riproduzione riservata

Autore: Marco Ignazio de Santis
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