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Salvemini, gli accordi su Fiume e la vigilia elettorale del 1924 Frammenti di storia
15 gennaio 2024

Per gli Italiani il 1924 si aprì con gli accordi italo-jugoslavi su Fiume, costituita in città libera dal trattato di Rapallo del 12 novembre 1920. Su quelle trattative Salvemini ebbe uno scambio epistolare col molfettese Giacinto Panunzio dopo alcuni interventi della stampa italiana. In prossimità della firma del nuovo concordato, infatti, il Corriere della Sera e altri giornali fornirono anticipazioni sull’annessione di Fiume all’Italia dietro il riconoscimento della Jugoslavia, che in cambio ottenne i sobborghi fiumani di Sušak, Delta e Porto Baroš. Il trattato di Roma fu poi siglato il 27 gennaio 1924 e Mussolini poté così attribuirsi il merito di aver risolto definitivamente la questione fiumana, che perdurava dalla fine della prima guerra mondiale, e di aver creato i presupposti per una politica di influenza dell’Italia nell’area balcanico-danubiana. Il 17 gennaio Salvemini aveva ricevuto da Bari un telegramma di felicitazioni anonimo sulla futura annessione di Fiume all’Italia e il giorno seguente da Firenze ne scrisse a Giacinto Panunzio, offrendo anche un consiglio sul da farsi chiestogli dai fedelissimi di Molfetta per le incombenti elezioni politiche. Gli amici molfettesi erano incerti nella scelta tra socialisti massimalisti e socialisti unitari. Tra questi ultimi in Terra di Bari militava l’avvocato, decorato nella Grande Guerra, Rocco Giuliani di Polignano a Mare (1881-1966), che lo storico, in una lettera del 9 luglio 1923 allo stesso Panunzio, aveva associato negativamente al gruppo di «lumache massoniche» pugliesi. Ecco le parole di Salvemini: «Caro Giacinto, ricevei ieri da Bari un telegramma di congratulazioni senza firma. Chi mai sarà? A me quello che voi chiamate una vittoria, non mi fa né caldo né freddo. Lo stato d’animo, da cui nacquero tutti gli errori passati, rimane sempre immutato. Questa vittoria, come quella del Trattato di Rapallo, sarà provvisoria: domani gl’italiani ricominceranno da capo ad insanire. E allora? […] La politica mi fa schifo. Non sono più guarito dalle mie esperienze di deputato. Poiché tu e Sergio Azzollini mi chiedete il mio parere sul quid agendum, io non vi consiglio di entrare nel partito massimalista: sono troppo inguaribilmente stupidi. Entrate nel partito unitario. C’è Rocco Giuliani, lo so; c’è la Massoneria, lo so. Entratevi per mettere a posto Rocco Giuliani, e per resistere alla Massoneria. Se la politica non mi facesse schifo, io farei così. Ma c’è in me una forza feroce che mi dice sempre di no. Voi non avete quello schifo; voi non siete trattenuti da nessuna forza feroce. Questo è il partito più affine a voi». Il 25 gennaio 1924 fu emanato il decreto di scioglimento della Camera e vennero indette per il 6 aprile le elezioni politiche col sistema maggioritario predisposto dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo con una legge da Mussolini fatta approvare dalla Camera e dal Senato fra il luglio e il novembre del 1923. All’ennesimo invito a candidarsi nella lista socialista unitaria pugliese da parte di Giacinto Panunzio, Eugenio Laricchiuta, segretario della Federazione barese del PSU (Partito Socialista Unitario) e altri, Salvemini rispose da Firenze, il 17 febbraio 1924, con una lunga lettera, ringraziando tutti di cuore, ma rifiutando decisamente l’offerta: «Piuttosto che essere deputato, mi darei una revolverata nella testa. Quello non è mestiere per me. Sono assolutamente inetto […] sento che col mio carattere, mi ammazzerei senza nessun utile risultato per nessuno: salvo, di tanto in tanto, qualche discorso urlato da tutta la camera. E avrei la certezza che alle elezioni successive non mi ripresenterei più, perché non troverei più un cane disposto a votare per chi non si occupi di interessi locali, per chi non risponde agli elettori; per chi non vuol saperne di cooperative, per chi è malvisto da tutti i giornali con tutte le peggiori calunnie e contumelie, e non si difende – perché ti giuro che non intendo più neanche difendermi da quel che si può dire sul mio conto – tanto è lo schifo che mi fanno i miei compatrioti». Salvemini, poi, metteva avanti il mutamento di prospettiva determinato dall’allargamento geopolitico di uno scontro elettorale, da cui i socialisti italiani di ogni orientamento, a suo avviso, avrebbero dovuto astenersi fin dall’inizio per isolare Mussolini: «La lotta, oggi, non è più locale, è nazionale. Non mi basta sapere chi verrebbe con me nella Terra di Bari. Bisognerebbe che sapessi chi sarà candidato socialista unitario nelle altre regioni. Se le liste dei candidati dovessero essere le solite liste di fascisti mancati, di cooperatori micragnosi, di massoni travestiti, mi dici tu perché dovrei io dare a quella gente questa prova di solidarietà? Eppoi occorrerebbe intendersi sull’andamento della lotta in tutta Italia. Se i socialisti italiani di tutte le tendenze avessero avuto un vestigio di buon senso, avrebbero dovuto da principio, senza discutere, proclamare la astensione. Non si gioca con un avversario, di cui si sa che ha le carte segnate. […] Ma che battaglia è questa? In Terra di Bari, due deputati non possono mettere piede. I giornali sono bruciati. Che lotta elettorale è questa? A me pare che oramai la prova sia data che è una commedia. E l’astensione che si doveva proclamare a priori, bisognerebbe proclamarla a posteriori. Invece ho l’impressione che gli ex deputati non vogliano saperne di astenersi: ognuno di essi spera di cavarsela almeno lui. Così tutti fanno il gioco di Mussolini. Invece di lasciarlo solo coi suoi seguaci, gli rendono il servizio di mandare alla camera una opposizione, che sarà buona solamente a legalizzare l’esistenza di una maggioranza artificiosa e falsa. E allora, che cosa ci starei io a fare in questa compagnia? Avallerei una politica socialista di cui sono convinto che è stupida. E per giunta correrei il pericolo di riuscire deputato col permesso di Mussolini, trovandomi in una camera che sarebbe anche peggiore di quella del 1913-21». Inoltre – osservava Salvemini – il suo ritorno fra i socialisti sarebbe stato interpretato come una prova di opportunismo e ambizione, mentre lo preoccupava il valore della sua scelta per i giovani attenti al suo esempio: «Aggiungi, finalmente, che il mio ingresso, o meglio il mio rientro nel partito oggi, come candidato, sarebbe considerato da tutti come frutto della mia smania di essere deputato: e in politica ciò che appare ha importanza più di quello che è. Quel poco di influenza che ho, mi viene dalla mia indifferenza per le vanità parlamentari. Se perdo quella influenza per un passo falso, mi dici a che servirà l’essere io candidato e magari eletto? Ti confesso che da alcuni mesi in qua sono continuamente a domandarmi se ho il diritto di starmene sotto la tenda, se non ho il dovere di aderire al partito unitario, dovendo questa indicazione a molti giovani, che aspettano che io mi decida per decidersi loro». In realtà, tutto sarebbe dipeso dalla scelta dei socialisti fra una dignitosa astensione totale o una partecipazione alle elezioni, vantaggiosa per Mussolini: «Ma prima di sentirmi colpevole della mia astensione, voglio vedere quel che fanno i socialisti unitari in questa lotta elettorale: se si decidono all’astensione, forse finirò coll’aderire, per quanto mi ripugni ormai lasciarmi ingabbiare in compa-gnia di uomini molti fra i quali nulla hanno imparato dalla spaventosa esperienza di questi ultimi anni. Ma se i socialisti unitari vanno avanti a furia di compromessi sempre e se continuano a guaire sulla Giustizia rimanendo nelle elezioni a fare servizio a Mussolini nella speranza di intascare una ventina di posti da deputato, allora proprio mi sentirò tranquillo e continuerò a rimanermene silenzioso, scoraggiato, convinto che in Italia non c’è nulla da fare, perché tanto valgono i fascisti quanto gli altri». Salvemini, infine, chiudeva la sua lettera approvando la decisione di Panunzio di non candidarsi ed elogiando Sergio Azzollini per la coraggiosa scelta opposta: «Fai bene a non accettare candidature: non c’è ragione di ridursi alla fame. E in genere ti raccomando molta prudenza. Azzollini che è più indipendente economicamente di te dà esempio di coraggio e di abnegazione accettando. Abbraccialo per me». Ammirando la dedizione di Azzollini, Salvemini ne appoggiò la candidatura nella lista del PSU per la circoscrizione delle Puglie con una lettera a lui indirizzata e pubblicata a scopo propagandistico il 30 marzo 1924 su La Giustizia di Milano, quotidiano dei socialisti unitari. La missiva è stata recuperata dal compianto Pasquale Minervini e pubblicata sul volume Gaetano Salvemini. Corrispondenze pugliesi (Centro Studi Molfettesi, 1989). Eccone il testo integrale: «Carissimo Azzollini. Non solo ho apprezzato, ma ho ammirato l’abnegazione con cui tu hai accettato la candidatura politica in un momento così ingrato com’è l’attuale. Se fin dal 1920, prima assai del colpo di stato fascista, non avessi promesso a me stesso di rifuggire per tutto il resto della mia vita da qualunque altra lotta elettorale, io non mi sarei rifiutato, come ho fatto, di prendere la mia parte di responsabilità nella protesta antifascista di questi giorni. Eppoi tu sai che io pensavo, che i partiti d’opposizione seria dovessero protestare contro il regime attuale, astenendosi totalmente da una lotta, che non poteva non ridursi ad una mistificazione della volontà popolare. Ma i comunisti, dopo avere aperta la via al fascismo con le loro scempiaggini convulsionarie del 1919-1920, gli hanno voluto rendere impossibile l’astensione degli oppositori; perciò hanno voluto partecipare alla lotta elettorale, essi, che negano le istituzioni democratiche e parlamentari. Rotta così la resistenza, tutti gli altri gruppi hanno dovuto deliberare l’intervento. E in queste condizioni occorre, che ciascuno compia, per quanto gli è possibile, il dovere di affermare col voto la propria protesta contro il regime, a cui il nostro paese è stato assoggettato dalla violenza armata di una minoranza infima. Io spero perciò vivamente, caro Azzollini, che tutti quei nostri amici pugliesi, ai quali può giungere la mia esortazione, diano prova ancora una volta della loro fede e della loro tenacia, votando per la lista dei socialisti unitarii. Rimarranno così fedeli a quella, che è stata sempre in Puglia la linea della nostra propaganda». A Mussolini non parve vero di poter intervenire con un “medaglioncino al cromo” infamante contro questo invito salveminiano al voto socialista unitario e soprattutto contro lo stesso Salvemini. Il 2 aprile 1924 sul quotidiano Il Popolo d’Italia, con lo pseudonimo di Il Pinturicchio (usato anche da Cesare Rossi, capo dell’ufficio stampa mussoliniano), apparve L’ex Gaetano, un corsivo denigratorio contro il fastidioso avversario molfettese. Il Duce non era riuscito ad impedire che lo storico, pur privo di un passaporto autentico da lui negatogli, si prendesse la soddisfazione di espatriare illegalmente a Londra nell’ottobre del 1923 per tenervi al King’s College un corso di lezioni storiche. Come se non bastasse questo sgarro, alla fine di marzo, cioè nell’imminenza delle elezioni del 6 aprile, «il professore», proseguiva Mussolini, «– constatato che delinquenti morali della sua specie possono ancora circolare impunemente in Italia – è sbucato dai suoi nascondigli diramando ai suoi ex elettori di Molfetta un violento quanto bestiale comunicato antifascista. Ma bravo, il professore di storia moderna! Mi piace di ritrovarlo nella sordida causa degli antifascisti. Una sua eventuale conversione o un semplice accostamento al Fascismo, sarebbe stata una jattura senza confini. Certa gente è molto meglio perderla che trovarla. In ogni caso, trovarla per stamparle sulla cuticagna il marchio che non si cancella». Dopo di che Mussolini chiudeva velenosamente il “medaglioncino al cromo” riesumando contro Salvemini la sarcastica metatesi del cognome Slavémini, affibbiata allo storico nel 1919 per le sue aperture agli Slavi nella questione dalmata, e citando con imprecisioni di memoria uno degli epigrammi satirici stilati da lacerbiani e futuristi agli inizi del 1914: «È Slavemini la cosa / che ti porta il pipistrello. / A vederlo non è bello / ma se parla poi fa schif». © Riproduzione riservata

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