Dopo essersi laureato in lettere, nel luglio 1894, a Firenze, il 21enne Gaetano Salvemini trascorse le vacanze a Molfetta presso la sua famiglia, che allora abitava in via Vittorio Emanuele (angolo villa Garibaldi). Qui gli scrissero, rispettivamente il 12 e il 28 agosto, due amici condiscepoli all'Istituto di Studi superiori di Firenze: Ernesta Bittanti (poi moglie di Cesare Battisti) e Ugo Guido Mondolfo (v. G. Salvemini, Carteggio 1894-1902), che gli chiesero di salutare il concittadino Nicola Altamura (scritto Tetumura (sic) nel Carteggio Salvemini e i Battisti (1894-1957), Trento 1987) amico loro come di Salvemini “degli studi fi orentini” (v. in G. Salvemini, Corrispondenze pugliesi, Molfetta 1989, lettere p. 242). Durante la sua permanenza a Molfetta, Salvemini inoltrò, il 29 settembre, la domanda di sussidio per l'anno di perfezionamento dopo la laurea presso lo stesso Istituto di Studi superiori (v. Carteggio 1894-1902, p.10), dove Nicola Altamura fu costretto, invece, a interrompere la facoltà di leettere, per frequentare quella di Giurisprudenza a Macerata (su cui v. G. de Gennaro, I Salveminiani di Molfetta, “Rassegna pugliese”, 1973, n. 9/12, p. 399-404). Alla stessa Facoltà di Macerata si iscrisse Salvemini mentre frequentava l'anno di perfezionamento a Firenze, dove, avvicinatosi al socialismo, dedicava le sue ore libere alla propaganda orale e pubblica di quel movimento, tenendo anche, in piazza Piattellina, Caffè Nazionale, nel quartiere di San Frediano, una conferenza alle otto pomeridiane del 23 maggio 1895, come egli scrive a Francesco Papafava la sera del 22 (v. Carteggio 1894-1902, come per le altre lettere di seguito citate). Nominato dal 1° ottobre 1895 reggente di classi inferiori al Ginnasio “Garibaldi” di Palermo, Salvemini passò da Molfetta, dove rimase quattro giorni, partendosene il 23. Nella città, anche se “la morale era tale che gli studenti di liceo andavano rubando le galline e i polli e credevano di far così dello spirito e tutti credevano così” - scrive Salvemini a Carlo Placci il 1° novembre 1895 - pure “il socialismo aveva fatto in un anno grandi progressi, grazie a Leonardo Mezzina (su cui v. “Quindici” del maggio 2005), un onestissimo ex mazziniano, che fu anche uno dei primi maestri di scuola, che, abbandonato due anni prima il radicalismo, aveva creato, si può dire, il partito e, preso alcuni operai intelligenti li aveva istruiti, aveva spiegato loro molto bene che cosa fosse socialismo, aveva messo su un piccolo circolino”. Anche “io - prosegue Salvemini - andai dal mio maestro e gli dissi che (...) ero socialista, che ero felicissimo di vedere un movimento cominciato così bene e gli dichiarai che aiuterò il partito nascostamente perché sono un professore e promisi di dedicare le ore, che in Firenze davo alla propaganda, orale e pubblica, a scrivere dei libriccini in lingua semidialettale per uso dei contadini ed operai molfettesi. (...). Tenni poi anche una conferenza. Esposi in fretta che cosa sia il collettivismo, mostrando in quanto differisca in metodi e fi ni dal comunismo, radicalismo e anarchia: e poi mi trattenni a lungo sulla moralità socialista e sulla necessità, in cui si trovava il partito in Molfetta, di guardarsi dagli avvocati, dai medici, dai professori, che oggi sono tutti radicali e domani diventeranno socialisti”. Arrivato a Palermo, Salvemini andò ad abitare in casa di un giovane socialista (v. Carteggio 1894- 1902, p. 43), dove gli scrisse, il 24 novembre 1895, Carlo Placci che, non conoscendo l'indirizzo, inviò la lettera presso la Regia Università di Palermo, dove Salvemini aveva trasferito, da Macerata, la sua iscrizione alla laurea in leggi (v. nello stesso Carteggio, p. 33). Scrive infatti Salvemini a Pasquale Villari, il 23 aprile 1896 da Palermo, spiegando questo suo desiderio di laurearsi in leggi: “fui iscritto l'anno passato a Macerata e sono iscritto quest'anno a Palermo, l'anno prossimo spero di prendere la laurea in leggi. Non ho avuto però mai in mente di far l'avvocato dopo aver preso la laurea: avendo iniziata non del tutto male la via che seguo ora, sarebbe pazzia imperdonabile abbandonarla per un'altra (...). Io desidero ardentemente e cercherò per quanto onestamente potrò, che non venga mai il giorno in cui debba essere obbligato ad abbandonare la via ben promettente d'ora per un'altra più agiata, più incerta, meno confacente al mio carattere; (...) ma se la sventura mia dovesse mettermi nell'alternativa di (...) essere gittato sul lastrico, non sarebbe bene che io avessi modo di aprirmi un'altra via, in cambio di quella che mi si chiuderebbe d'avanti? Come vede, professore, (...) dopo questo che ho detto, crede che sia leggiero o squilibrato o ingiustifi cato il mio desiderio di laurearmi in Leggi? Anche il Placci dice che io ho ragione”. Nella Università di Palermo era allora professore di Storia del Diritto italiano e di Diritto ecclesiastico Giuseppe Salvioli, il quale, il 28 ottobre 1896, quando seppe che Salvemini si era trasferito a Faenza e non sarebbe stato più a Palermo, gli scrisse: mi dolgo che Ella non venga più (...) e perdo un amico con cui mi era caro intrattenermi de' comuni studi (...). Intanto Ella potrà sempre stare unita a me nella nuova rivista che vo a fondare (la “Rivista di Storia e Filosofi a del Diritto”), che uscirà il 1° gennaio '97, per merito dell'editore Sandrom (...). Ella che è tanto operoso e valente - dice ancora il Salvioli a Salvemini - e che mi è amico non mi lesinerà il suo concorso con tutte le sue forze alla riuscita di una impresa che vuole illustrare colla storia le idee del socialismo scientifi co, e questa illustrazione fatta con garbo, tra una notizia di un manoscritto e il commento di una legge, servirà pure”. Al riguardo, lo stesso Salvemini scriverà a Carlo Placci, il 16 novembre1896 da Faenza: “Coi primi del '97 comincerà ad uscire a Palermo una rivista di storia e fi losofi a del diritto fatta con metodo marxista. Ne è direttore il Salvioli. La nostra scuola fa progressi: io da una parte ne ho un po' di dispiacere, perché volevo essere il primo in Italia a dar l'esempio di una trattazione storico marxista; dall'altra ne sono contento, perché l'esser nate le mie stesse idee in altri cervelli nello stesso tempo che nel mio, vuol dire che le mie idee sono giuste”: E appunto nel primo numero della “Rivista”, il Salvioli, in una sua nota su La dignità cavalleresca di Salvemini, diceva che “il Salvemini è giovane e da lui anche la storia del nostro diritto ha molto da aspettarsi” (v. Carteggio 1894- 1902, p. 29 nota). In quegli anni, il giovane Salvemini era promesso sposo di Maria Minervini, di famiglia molfettese residente a Firenze, diciottenne quando il 14 novembre 1895 Gaetano scriveva da Palermo a Carlo Placci: “Io voglio essere felice con la mia Maria e aspettare solo due anni per sposarla”. E infatti, nei mesi di agosto e settembre del 1897, quando insegnava a Faenza, Salvemini preparò i documenti per il suo matrimonio”. “Durante queste vacanze, che fui a casa per i dolcissimi miei affari – scriveva al Placci il 30 novembre – mi occupai anche di propaganda (socialista): abbiamo ora a Molfetta un circolino, che è la disperazione del pretore e del delegato di P. S.. Abbiamo fatto anche un comizio contro il domicilio coatto” (a riguardo del quale v. “Quindici”, del maggio 2005). Eseguite il 3 ottobre le pubblicazioni matrimoniali a Molfetta, come già il 26 settembre a Firenze, dove risiedeva Maria (come risulta dall'Atto matrimoniale segnalatomi da Firenze dall'amico prof. Ernesto Ricci), la mattina del 21 ottobre 1897 fu contratto matrimonio civile nel Palazzo comunale di Firenze, davanti all'Assessore delegato dal Sindaco, e alla presenza di testimoni Vincenzo Fiorentino, di anni 47, e Giuseppe Cantoni, di anni 75, entrambi di Firenze e ingegneri, come lo era il padre di Maria, Corrado Minervini, trasferitori a Firenze nel 1888. “In occasione del mio matrimonio – scrive Salvemini all'amico Placci nella lettera del 30 novembre – avevo tante volte pensato a scriver- Le, per dirLe qaunto ero contento (...) con la mia Maria. (...) Se sapesse quale grande cambiamento è avvenuto nel mio carattere! Prima che sposassi io non facevo che tormentare me stesso: ma sono adatto a metter su una famiglia? La mia salute me lo permette? Ed economicamente parlando, come andrà? E se dovessi essere licenziato dal governo perché socialista? ecc. ecc. ecc. Gli ultimi giorni del mio celibato li passai in uno stato deplorevole; piangevo, non mangiavo, non dormivo; roba da chiodi, insomma. Non so quante volte ho ripetuto a me stesso la lunga parola: responsabilità. Ora tutto è mutato. Non penso più all'avvenire, o meglio ci penso con più sicurezza. Mi sento forte; son sicuro di vincere nella battaglia della vita. Maria è tanto buona e mi vuole tanto bene, che è impossibile che le cose non vadano bene. Non le pare che io abbia ragione? Quanto al socialismo, dopo che ho preso moglie, sono diventato più socialista che mai”. Al matrimonio in municipio seguì quello in chiesa, come ricorda lo stesso Salvemini all'XI Congresso del Partito socialista (Milano 21-25 ottobre 1910), a chi lo aveva rimproverato di essere venuto meno ai suoi principi di ateo: “Io devo dire che ho sposato in chiesa la donna che ho amata e sposando questa donna (che morì nel terremoto di Messina del 1908, ndr) ho compiuto anzitutto un atto che tutti conoscono e che non ho nascosto. Inoltre sposando questa donna, ed auguro a tutti quelli che non sposano in chiesa di avere accanto a sè una creatura come quella che ho avuto io, sposando questa donna, cioè compiendo in quel momento un atto di omaggio ai suoi sentimenti religiosi, perché io l'amavo e perché avevo fede in lei, io non ho abdicato perennemente e permanentemente alla mia libertà e non ho avuto mai in questa creatura un momento in cui essa mi abbia impedito di fare tutto quello che avevo il dovere di fare secondo le mie idee” (dal Resoconto del Congresso, cit. da Lelio Basso, G. Salvemini socialista e meridionalista, Lacaita, Manduria 1959, p. 138).
Autore: Pasquale Minervini