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Quel molfettese di talento morto di privazioni e malattia nella Torino del boom economico Una storia dimenticata che fece scalpore all’epoca
15 luglio 2024

Oggi di Antonio Germinario resta un ovale impolverato in un loculo che divide con la madre, zona dieci, area est, cimitero di Molfetta. Indossa un completo elegante, giacca e cravatta, che forse gli cade un po’ largo sulle spalle esili e da quella vecchia foto in bianco e nero ti fissa serio con occhi vivi e svelti, da ragazzo. Non ci sono dediche, preghiere, citazioni, solo due parole che lo qualificano: studente universitario. È morto a Torino il 5 aprile del 1959, aveva 22 anni. Lì, ci era arrivato qualche mese prima, a novembre, per frequentare presso il Politecnico i corsi di ingegneria elettronica, che a Bari ancora non ci sono. All’epoca sono corsi avveniristici che profumano di futuro, mentre l’economia italiana corre spedita, a pieno vapore, con il Pil che cresce del 6% l’anno, i consumi che esplodono e l’industria nazionale che diventa tra le più grandi del pianeta. Torino deve apparire ad Antonio come una New York tricolore: la terra promessa del benessere, dell’industria, degli affari. È la città delle due università, di quotidiani di grido come La Stampa e La Gazzetta del popolo, è la città dell’Einaudi che apre il paese alla letteratura europea e mondiale, è la città delle grandi scuole di storia, letteratura e filosofia guidate da intellettuali del calibro di Franco Venturi, Norberto Bobbio, Primo levi, Mario Soldati. A venti minuti da via Vincenzo Vela dove Antonio ha affittato una piccola stanza ammobiliata con un altro suo amico molfettese, c’è lo stadio Comunale, dove gioca la squadra più forte del paese, la Juventus del trio magico Boniperti, Sivori e Charles, questi ultimi due comprati a peso d’oro nell’estate del ‘57 dopo furibonde polemiche portate avanti dai quotidiani di sinistra sui troppi soldi che girano nel mondo del pallone. Le luci, e le ombre. Quasi un milione di meridionali arrivano nel triangolo industriale. Torino diventa la più grande città del “Sud” dopo Napoli e Palermo. Non ci sono alloggi, molti dormono in topaie affollate, si arrangiano con lavoretti saltuari, finiscono ai margini. Quelli che trovano una buona sistemazione vivono comunque lo straniamento della realtà industriale, il collasso delle origini, i non infrequenti episodi discriminatori. Antonio è uno studente di talento. Dopo la sua morte, il sottosegretario per la Pubblica istruzione, il democristiano Giovanni Battista Scaglia alla Camera dei Deputati risponde a una interrogazione del Pci e racconta il suo percorso scolastico e universitario. Diplomato al Liceo Classico Leonardo da Vinci di Molfetta, anno scolastico 1955-56, con voti lusinghieri, che tradiscono forse già la sua inclinazione scientifica: italiano 6, latino 6, greco 7, storia 8, matematica 8, fisica 8, scienze 7, storia dell’arte 8. Poi l’Università a Bari, 14 esami in due anni, la media del 28, l’esonero totale delle tasse, l’arrivo a Torino, iscritto al primo anno del triennio di applicazione della facoltà di ingegneria del Politecnico. L’11 aprile del 1959, dopo il decesso, i suoi amici di corso scrivono a Specchio dei Tempi, la rubrica che La Stampa dedica a problemi, istanze, riflessioni dei lettori. Solo poche righe: «Un gruppo di lettori ci scrive: siamo un gruppo di studenti del Politecnico, e ci rivolgiamo a te, caro “Specchio”, per segnalare un caso pietoso ed urgente ai generosi lettori. Un nostro collega, Antonio Germinario, di anni 22, frequentante il III Anno di Ingegneria al Politecnico di Torino, nativo di Molfetta (Bari), ed ivi residente con la famiglia, figlio di poverissima gente (il padre fa l’aiutante sarto, con a carico un figlio minorato psichico e fisico, ed altri due figli in tenera età), ebbe la fortuna di godere di una borsa di studio e di altri aiuti per poter frequentare i corsi al nostro Politecnico, essendone meritevole. Ma per il troppo studio, per le privazioni e miseria, si ammalò, ed in pochi giorni le sue condizioni peggiorarono a tal punto che domenica scorsa morì. I genitori angosciati non chiedono altro che avere vicino le spoglie del loro povero figlio: ma, essendo privi di mezzi, si trovano nell’impossibilità di soddisfare questo loro pio desiderio. Noi, in loro nome, rivolgiamo un caldo appello a tutte quelle generose persone, che vorranno contribuire a raccogliere la somma necessaria per il trasporto della salma al paese natio. Gli studenti del III Anno di Ingegneria. (Allegate lire 30 mila)». Non immaginano probabilmente, di stare per dare il via a un chiassoso caso mediatico che per settimane avrebbe incendiato il dibattito pubblico sul diritto allo studio e l’accessibilità ai corsi universitari, innescato un asprissimo scontro di taglio campanilistico tra carta stampata settentrionale e meridionale, provocato proteste indignate che sarebbero rimbalzate tra le città di Torino e Molfetta e che si sarebbe prestato ad avvelenato terreno di scontro politico. È una vicenda di simbolismi esplosivi: un giovane meridionale di talento, sbarcato nella Torino della grande industria e lì morto di stenti nell’indifferenza della ricca Italia industriale. In realtà Antonio è un malato tubercolotico, le sue condizioni sono serie e la morte è probabilmente dovuta a un groviglio di cause (malattia, privazioni, mancanza di una adeguata assistenza sanitaria) che si inseguono e non sono sempre chiaramente distinguibili. Intanto la grancassa mediatica è partita. È un giornalismo che dopo i vent’anni di censura fascista scopre la smodata passione degli italiani per la cronaca nera che affolla le pagine interne dei grandi quotidiani e le copertine dei rotocalchi. È un racconto che verte sul sensazionalismo, sulla morbosa ricerca di macabri particolari, che insiste sui contesti di desolante degrado e squallore che possono favorire crimini e violenze. Di quel sottobosco fatto di scoop strillati e ammiccamenti sentimentali, di cronache spicce intrise di scandalismo a buon mercato, Federico Fellini traccerà un ritratto vetrioleggiante nel suo La Dolce Vita. A La Stampa arrivano moltissime lettere di torinesi che esprimono sdegno e stupore per la misera sorte del giovane e i vertici del Politecnico ammettono subito che troppo poco si fa per casi come questo e invitano le istituzioni ad aumentare borse di studio e assistenza per gli studenti più indigenti. Viene avviata una sottoscrizione dapprima per garantire una degna sepoltura dello studente, poi per aiutarne la famiglia e garantire il proseguo degli studi alle due sorelle minori del giovane. Per settimane il quotidiano di Torino manterrà una finestra informativa all’interno della rubrica Specchio dei Tempi dal titolo «misera morte d’uno studente» dove verranno pubblicate tutte le donazioni ricevute. Queste sono spesso accompagnate da brevissimi messaggi di solidarietà verso la città di Molfetta o Antonio o dediche a persone scomparse. Alla fine della raccolta, la sottoscrizione raggiunge la ragguardevole cifra di 868.260 lire. Piovono messaggi di cordoglio, di sorpresa e di aspra critica sociale. Molti denunciano un’università ad appannaggio della ricca borghesia, ne chiedono una radicale riforma, iniziano ad ardere i primi, lontani fuochi della contestazione. Qualche mese dopo questi fatti ci saranno le prime occupazioni, i primi scioperi, le prime rivendicazioni. L’Unità pubblica la notizia in prima pagina: «incredibile tragedia nel regno della Fiat». Il periodico marxista Cronache Meridionali diretto da Giorgio Amendola e Mario Alicata, commenta polemicamente il fatto indicandolo come l’esempio lampante della disumanità del capitalismo: “Antonio era malato, mangiava pochissimo, non comperava medicine, né andava dai medici, studiava assiduamente, aveva una volontà di ferro. In breve, secondo un modo di dire, che presuppone le spietate leggi di una società capitalistica, uno che non ce l’ha fatta”. Guido Piovene su Epoca paragona Antonio al protagonista di un racconto dello scrittore calabrese Saverio Strati, un contadino della Calabria per il quale la famiglia sopportava incredibili sacrifici per permettergli di infrangere il muro della povertà. Piovene conclude il suo commento con una amara chiosa polemica: “questa fame di cultura, in lotta, quasi sempre perdente, con la fame dello stomaco; poi ci verranno a dire che tutto il popolo italiano è avido solo di fumetti, canzonette, canzonettisti, ecc., e che noi siamo lì soltanto per accontentare democraticamente la sacrosanta legge di questa richiesta”. Intanto il 17 aprile, alle 21,30 la salma di Antonio Germinario, parte per Molfetta su vettura speciale, messa a disposizione per ordine del Ministro dei Trasporti on. Angelini. Il prefetto di Torino, Rodolfo Saporiti, manifesta il cordoglio della città inviando 50.000 lire alla sottoscrizione lanciata da «La Stampa». I funerali si sarebbero svolti domenica 20 aprile a Molfetta al cospetto di una gran folla di cittadini e della massime autorità locali: la salma viene portata a spalla dagli studenti della facoltà di ingegneria di Bari. Qui in città molti negano. Vivono la vicenda con vergogna. Raccontano un’altra storia, parlano di una famiglia, quella di Antonio, di ricchi possidenti e di una morte avvenuta a causa di un incidente stradale. In consiglio comunale, quello stesso 20 aprile il Pci conduce una dura accusa nei confronti del governo a guida democristiana, mostra un cartello duramente polemico («il governo democristiano fa morire di fame gli studenti») mentre i partiti della maggioranza con la Dc in testa, lamentano la cattiva stampa di quei giorni, rifiutano l’immagine di quel Sud misero raccontato da Piovene, gridano al complotto mediatico. È vero, Molfetta non è una landa desolata come qualcuno immagina. Solo cinque anni prima, nel 1954 Gaetano Salvemini aveva dedicato un dettagliato studio alla sua città natale che in quel momento viveva soprattutto di mare e delle rimesse della grossa comunità di emigranti molfettesi presente a New York e in Venezuela mentre contraddizioni profonde venivano colte in vari settori economici e allo stesso tempo venivano mosse critiche di carattere sociale e di costume. Salvemini ad esempio, stizzito annotava che “la popolazione intera è tifosa per il calcio: sono spesi in biglietti d’ingresso per le partite fino a tre milioni per volta” e che anche se adesso in molti studiavano bisognava constatare che “le fabbriche dei disoccupati intellettuali lavorano a tutto vapore”. Nel complesso però si ammetteva che i passi avanti erano stati moltissimi. Quando piomba il caso Germinario però, in città si sceglie la strada sbagliata: si nega, si manipola, si cede a isterismi complottistici. La Gazzetta del Mezzogiorno e la torinese Gazzetta del Popolo (che mal ha sopportato invece l’immagine tetra di una Torino che lascia morire di fame con indifferenza giovani studenti meridionali) cavalcano il malcontento e pubblicano controinchieste per la verità assai goffe. La Stampa, che prende a cuore il caso, manda un inviato speciale a Molfetta per far luce sulla vicenda, intervista i medici che hanno avuto Antonio in cura, ascolta parenti, amici e conoscenti del giovane, visita la misera casa nel quale è cresciuto, chiarendo definitivamente che si è trattato soprattutto di una tragedia della povertà. Tenta di chiudere il caso scrivendo direttamente dalle sue colonne ai molfettesi: “Conosciamo i drammi della piccola borghesia, in particolare di molte famiglie del meridione, che affrontano sacrifici gravi e quasi sempre ignorati per far studiare i figli. La famiglia Germinarlo e la città di Molfetta non hanno nulla da rimproverarsi: aver avuto un figlio come Antonio, con il suo coraggio o la sua disperata volontà di studio, è un alto onore. Nella sventurata vicenda sono intervenute spiacevoli polemiche tra Nord e Sud e tra partiti avversi. La politica non conosce pietà”. Ad ottobre il governo risponde a una interpellanza del deputato comunista Assennato cercando di spiegare perché Antonio non ha potuto accedere a una borse di studio in grado di garantirgli cure adeguate e un buon alloggio. A Molfetta promettono di mantenere vivo il ricordo del talentuoso studente che ha fotografato con la sua tragedia i travagli di una generazione che sogna un’elevazione non solo economica ma anche culturale. Poi più niente. Da quell’aprile del 1959 sono passati 65 anni. Io invece, ho “incontrato” Antonio una decina di anni fa, mentre stavo finendo la mia tesi di dottorato sulla nascita del quarto centro siderurgico di Taranto (che poi sarebbe diventata un libro edito da Il Mulino) e spulciavo vecchi numeri de La Gazzetta del Mezzogiorno in biblioteca, qui a Molfetta. Poi, dopo, ormai all’estero, mentre scrivevo una storia sociale sul calcio italiano (sull’antijuventinismo) mi sono accorto che affollava le cronache dei giornali torinesi del periodo e quando ho avviato uno studio sulle riforme della scuola pubblica italiana ho scoperto che aveva monopolizzato per diverse settimane parte del dibattito su accesso e diritto allo studio degli studenti universitari. C’erano sue tracce un po’ dappertutto come se Antonio stesse bussando e lo stesse facendo con le unghie e non con le nocche. E così mi è sembrato che questa storia di strampalati campanilismi, di grotteschi orgogli, di notizie urlate e non sempre verificate, di sensazionalismi spicci, di diritti negati, meritasse di essere studiata, analizzata, capita. Che fosse uno specchio che proiettasse immagini vivide, ardenti. Che ci potesse dire qualcosa. Oggi, intanto, l’Italia non corre più. È un paese stanco e deluso, incattivato, travolto da un vuoto, etico ed ideale, del quale non si intravede la fine. I giovani meridionali continuano ad emigrare. Soprattutto quelli con una laurea in mano. Nel 2018, statistiche Istat alla mano, Molfetta era leader in Puglia per numero di giovani che abbandonavano la propria città. In una delle capitali meridionali dei cervelli in fuga, forse sarebbe prezioso recuperare le tracce sfortunate di questo sognatore naufragato. Custodirne in qualche modo il ricordo, come fosse una piccola e preziosa fiammella in grado di illuminare il buio nel quale lentamente ma inesorabilmente siamo piombati. ————— Onofrio Bellifemine insegna Storia dell’Italia contemporanea all’Università Cardinale Stefan Wyszynski di Varsavia. Si occupa di meridionalismo, storia del giornalismo, rapporti italo-polacchi, storia dello sport. Nel 2018 ha pubblicato con il Mulino il saggio intitolato Una nuova politica per il Meridione: la nascita del quarto centro siderurgico di Taranto (1955-1960); nel 2023 per la Firenze University Press “Maledetta Signora, storia dell’antijuventinismo (1897-2023).

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