Passione cavalli, mostra di George Farah all'Aneb
Una nuova personale per il poliedrico artista italo-egiziano George Farah, dal titolo Passione cavalli, è stata allestita a Molfetta presso la sede Aneb (Associazione insegnanti benemeriti) in via Cap. de Gennaro 23, dal 4 al 7 aprile. A inaugurare il vernissage, curato dall’associazione presieduta da Annetta La Candia, il preside Damiano d’Elia, direttore del Centro Culturale Auditorium San Domenico. Ben noto al pubblico molfettese, George Farah è nato in Egitto nel 1945. Laureato nel 1967 in lingua e letteratura francese, ha insegnato nei due più prestigiosi licei francesi del Cairo e, successivamente, anche all’estero. Nella metropoli egiziana, ha studiato tromba e chitarra presso il locale conservatorio; la sua passione per la musica e il filologico studio delle peculiarità dei differenti strumenti hanno conosciuto una felicissima declinazione nella personale Donne e Musica, inaugurata nell’ottobre 2011 presso il Chiostro della Fabbrica di San Domenico dall’artista Marisa Carabellese. Importanti istituzioni culturali internazionali come l’IFAO (Istituto francese di Archeologia orientale) hanno ospitato sue esposizioni. Uno dei domini di eccellenza di Farah è senz’altro rappresentato dai dipinti e dalla grafica su papiri. Egli si distingue anche per la capacità di amalgamare influssi della cultura arabo-orientale e suggestioni dell’arte d’Occidente, in fecondissimo connubio di cromatismi e figure di eleganza a tratti cesellata nei dettagli, a tratti estrinsecata in forme d’apparente naïveté. Già in ottobre, Farah e il fotografo di “Quindici” Mauro Germinario avevano realizzato, presso l’Università Popolare molfettese, un allestimento a quattro mani sul suggestivo e libertario tema dei gabbiani. Per l’Aneb, invece, l’artista ha optato per un diverso soggetto, il cavallo, cui ha dedicato 24 sue fotografie e 20 dipinti, accompagnati da 10 poesie, in cui si rinvengono echi della sfaccettata cultura dell’autore. Il dinamismo degli scatti di Farah, che si stagliano spesso sullo scenario del maneggio, emerge anche in versi come quelli di Non ti voltare mai indietro. L’equus è araldo di libertà con le sue corse su distese assolate o sferzate dal vento, ma anche i suoi ‘voli’ – come quelli del gabbiano – sono in parte eterodiretti. Su lui pesa una maledizione ‘ancestrale’, la medesima che decretò il fallimento di Orfeo e la metamorfosi in statua di sale della moglie di Lot: il peccato del volgersi indietro, del non saper recidere i contatti con un passato-fardello di cui occorrerebbe liberarsi. L’artista gli assomiglia nella perenne ricerca di spazi di libertà, che solo la pittura dischiude, se si sanno usare quei ferri del mestiere cui Farah di volta in volta abilmente (anche con un braccio rotto!) ricorre: il pastello morbido o a cera, l’inchiostro di china, il pennarello nero, l’acquerello (in questa occasione, l’italo-egiziano non si è avvalso dell’acrilico). E così l’immaginazione arabesca, dà sfogo a un automatismo psichico che ridisegna surrealmente gli sfondi, ne fa palcoscenici geometrizzanti policromatici. Parcellizza l’atmosfera come mosaico di sogno. Si sofferma sull’anatomia dell’animale, ma, secondo sua consuetudine, senza indulgere a eccessi di realismo: capita così che venga volutamente accentuata la muscolatura equina per sottolineare la tensione o che il cavallo, in deroga a canoni di oggettività, paia quasi sospinto da un vento sacro verso mete inusitate. Non mancano l’accentuazione di delicati dettagli – il fiore a suggello di un’unione all’insegna della tenerezza – né quella bonaria civetteria che induce Farah all’autoritratto, come avvenuto anche nelle precedenti esposizioni molfettesi. Tra notturni alla Pierrot e gran galop di gruppo su nuvole di prati, disseminate in un’atmosfera che sembra fondere cielo e terra e non conosce orizzonti ordinari, la passione dei cavalli si dispiega, con sguardi sbarazzini e vagamente dissacranti al femminino. Vediamo così un’amazzone, moderna Ippolita effigiata di profilo, con i seni esibiti all’aura e una sciarpetta librata al vento, come Venere quasi sorgere dalle acque e, sul flutto lieve, incedere a cavallo. Le nuvole le appaiono così vicine, da poter essere quasi toccate dalla sciarpa, ma lo sguardo è lontano, intento a spiare il volo di un gabbiano. E il cavallo, come il leggendario liocorno “ammansito” dalla “giovane vergine”, sosta per un istante, pronto a imitare il compagno volatile e a lanciarsi in gioioso volo verso l’infinito.
Autore: Gianni Antonio Palumbo