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Omaggio a Molfetta nel centenario dell’Università popolare molfettese La raccolta di Ada De Judicibus Lisena con la copertina di Marisa Carabellese
15 novembre 2017

La città di Molfetta si staglia nitida nell’accorato omaggio della scrittrice Ada De Judicibus Lisena. È appena stata pubblicata la terza edizione della raccolta Omaggio a Molfetta nel centenario dell’Università popolare molfettese, per i tipi delle Edizioni La Nuova Mezzina. A tenere a battesimo le prime due stampe era stata la lucida presentazione critica del professor Giovanni de Gennaro, che aveva sottolineato, tra l’altro, la forza espressiva e il nitore del periodare della poetessa, nel suo “conversare pensoso con se stessa”. Segnaliamo in copertina il bel Labirinto di scale di Marisa Carabellese, opera di notevole potere evocativo, con la suggestione del modulo della scala che potrebbe ripetersi all’infinito, in un indefinito riprodursi degli spazi. Il dilatarsi degli spazi conosce il suo corrispettivo celeste nel volo del gabbiano, forse seguito dallo sguardo del bambino, unica presenza umana della tela. Ai nuclei precedenti della raccolta della De Judicibus Lisena, “Omaggio a Molfetta” e “Ripresa di un dialogo”, cui era strettamente collegata anche la sezione “Campagna nell’onda delle stagioni”, si aggiunge un nuovo cospicuo gruppo di testi, “Di là dalla corte”, in cui è racchiusa la parte maggiormente consistente della produzione civile della poetessa. Le prime due sezioni esprimevano l’approdo dalle memorie dell’elemento marino alla campagna, porto amatissimo della maturità. “Colgo fiori / e divento campagna”, scriveva l’autrice, la sua allegria si effondeva nella bella maggiolata di Primavera. L’adesione ai ritmi della natura era profonda tanto nella prima, quanto nella seconda sezione e coesisteva con il canto di una Molfetta incantata, quella dei concerti lirici durante la festa patronale o delle Case del borgo antico, in un’atmosfera trasognata scolpita dal verso limpido. Era la “mite città” dell’infanzia, “mito personale” dell’autrice con i suoi cavalli e l’aura di fiaba. Eppure già si avvertiva il senso del cambiamento, il lenta declino di un passato di cui l’arcana figura della nonna era vessillifera. Di là dalla corte accentua lo sguardo sul mondo, per cogliervi gli stessi tragici segni del microcosmo in lento disfacimento. L’epicedio dei pettirossi, la sgomenta contemplazione del Male che “scava / e cova uova nere” trovano il loro corrispettivo nell’agonia di una società che gradualmente ha smarrito il senso della bellezza e del decoro e nelle ingiustizie di un mondo che costringe i suoi figli più deboli alle migrazioni e spesso ne soffoca i sogni in rugginosi sarcofagi. Il canto della De Judicibus Lisena si leva armonioso ed elegiaco e ha la forza di una composta e dignitosa “corale” di dolore. Composta perché mai sopra le righe, grazie al dono di una parola che spesso fonde l’evocativo e il preciso e ha nella sua naturale forza musicale un tratto inconfondibile. Il finale si eleva con la forza di una salmodia laica, in virtù di versi come questi: “è l’anima dell’uomo / questo variare di oscurità e di luce. / Paludi e cieli, / aquile e daini: / metamorfosi osmosi convivenza / la realtà”.

© Riproduzione riservata

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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