Mi accingo a scrivere di pace e di disarmo proprio il giorno in cui siamo chiamati a stringere forte nelle nostre mani la tessera elettorale, per esprimere un voto per l’Europa di domani. Esercitando uno dei più nobili diritti che una democrazia possa avere – le nostre “armi” sono migliori delle vostre: il voto e lo sciopero, ci ricordava don Lorenzo Milani – esprimiamo fiducia in questa nostra casa comune, l’Europa, così fragile, minata da conflitti a fuoco e circondata di filo spinato per blindare le frontiere. «Non lasciamo che venti di guerra sempre più forti spirino sull’Europa e sul Mediterraneo – ci esortava papa Francesco lo scorso 31 marzo – Non si ceda alla logica delle armi e del riarmo. La pace non si costruisce mai con le armi, ma tendendo le mani e aprendo i cuori». La guerra è sempre una sconfitta. Non di un popolo o di un Stato, ma dell’intera comunità umana che, silenziosamente, incolpevolmente (ne siamo proprio certi?) la permette. È una frattura grande nella famiglia umana. Un peccato collettivo, la definisce ancora papa Francesco. Mi sovviene così in mente don Tonino. Vuoi perché la sua forza dirompente di costruttore di pace e di tessitore di un’altra umanità, sognatrice e disarmata, gli ha reso possibili azioni di pace come la Carovana dei 500 a Sarajevo, in pieno assedio, nel dicembre 1992. Vuoi perché, nella sua e nostra Puglia degli anni Ottanta/Novanta, si misero in piedi alcuni importanti percorsi di disarmo politico e di trasparenza, come la legge 185 che regola l’export delle armi a Paesi terzi o la messa al bando delle mine antipersona vincitrice del Nobel per la pace e poi legge italiana. Penso a don Tonino e alle sue domande aperte sulla nonviolenza, che risuonano oggi ancor più forti. Penso alle guerre alle porte dell’Europa, deflagranti per la nostra fraternità quanto il conflitto in Iraq di ieri. Penso alla debolezza degli organismi internazionali, nati dalle macerie della guerra e perché questa non ci fosse più. «A questa Onu che scivola in silenzio nel cuore della guerra il cielo vuole affidare un messaggio: che la pace va osata», diceva don Tonino. E proseguiva, poco più avanti: «Quanta fatica si fa a far capire che la soluzione dei conflitti non avverrà mai con la guerra ma con il dialogo – proseguiva –, abbiamo fatto fatica anche qui con i rappresentanti religiosi, perché è difficile questa idea della soluzione pacifica dei conflitti. Ma noi siamo venuti a portare un germe: un giorno fiorirà» (Don Tonino Bello, dicembre 1990). E, oggi, dov’è la voce dell’Onu? A quando la possibilità di risolvere i conflitti senza armi né guerre ma con la forza della mediazione, delle trattative e del diritto internazionale? Siamo in mezzo a due fuochi che preoccupano per la loro possibile escalation. Assistiamo alle morti quotidiane di persone, di donne e di bambini a Gaza. Al loro annientamento, alla privazione del bisogno più elementare che è la vita. Nelle aeree palestinesi hanno bisogno di aiuti umanitari, di medicine e di cibo. “Poi, arriva il momento in cui è chiaro che la guerra è esaurita, e tutti lo sanno, in Israele e a Gaza – scrive l’autore israeliano David Grossman in “La pace è l’unica strada” – ma non sono in grado di smettere, non è possibile smettere. È come se la forza fosse diventata il fine stesso invece che il mezzo”. E, nel frattempo, i bambini continuano a morire, alcuni di loro sopravvivono, ma cresceranno profughi, orfani o, comunque, con il rumore assordante delle bombe nelle loro piccole orecchie, impauriti e senza capacità di sognare e di credere all’umanità. E noi? La guerra, ci dice Grossman, non ha un meccanismo di autospegnimento. Noi, ci ricorda ancora, “ostaggi di tutti gli estremismi, restiamo a bocca aperta nel vedere esseri umani trasformarsi in bersagli, in obbiettivi da colpire, madri fare da scudo ai figli nelle strade, palazzi crollare come castelli di carta e intere famiglie svanire di colpo”. E noi, quindi? Noi, nel frattempo, assistiamo alla guerra infinita in Ucraina. Proseguiamo nel chiedere pace con la mano destra e nel costruire e inviare armi con la sinistra. Strabici. Assuefatti alla guerra come la normalità e come unica strada percorribile, in fondo la giustifichiamo. Ascoltiamo il grido di popoli e di persone che muoiono sotto le bombe o nel Mare Mediterraneo nel tentativo di giungere sulle nostre coste, ma le loro urla di dolore non disturbano il nostro sonno, non scalfiscono la comodità delle nostre esistenze, qui al sicuro di una casa. Non costruiamo politiche che riducano la produzione e la vendita di armi, non blocchiamo leggi e decreti che chiudono i porti e che vivono i migranti come pericolo per la sicurezza. La nostra sicurezza, chiaramente. Quel germe di pace che, da cristiani, siamo chiamati a seminare, è ancora lì, in attesa di fiorire. Osate la pace, sembra dirci ancora don Tonino. E noi, dunque? Siamo chiamati a una sfida grande, quella di interrompere il torpore dell’individualismo e del sonno della ragione. Siamo chiamati, nelle nostre coscienze prima e nelle politiche subito dopo, a riporre la guerra tra le “cose brutte” dell’umanità; un peccato collettivo, da ripudiare. Ci hanno convinto, piano piano, che le armi siano la normalità e noi, spettatori, abbiamo ceduto alla divisione del mondo in amici e nemici, in una logica binaria che non ha nulla di nonviolento. Ecco, che dall’Arena di Verona, lo scorso 18 maggio, centinaia di migliaia di persone riunite in un colorato e sognante convivio, ritornano a gridare: “In piedi, operatori di pace!”. Torniamo a tessere, nel lavoro quotidiano, pace e giustizia, diritti e nonviolenza. Continuiamo a dire che il “Gcap”di Leonardo – il futuro aereo da combattimento da “guerre stellari”, capace di operare contestualmente nei 5 domini (aria, terra, mare, spazio e cyber) e che ci costerà 8 miliardi – è un progetto di morte. Continuiamo a dire che non li vogliamo questi aeri F35, capaci di sganciare in cielo bombe atomiche. Che le armi nucleari sono un abominio, che i migranti sono fratelli. Continuiamo a chiedere ai nostri parlamentari di tenere sotto controllo le spese militari perché è meglio un asilo o un ospedale che un nuovo aereo o armi da vendere. E, adesso, chiediamo loro – ai deputati – di non toglierci e di non deturpare la legge 185 del 1990, nata qui in Puglia, con don Tonino Bello e la campagna “Contro i mercanti di morte”, e che sinora ci ha consentito trasparenza e informazione nell’export di armi. Una legge già passata in Senato e le cui modifiche sarebbero un regalo per chi in armi fa affari. Noi, ora, la pace dobbiamo proprio osarla. Incessantemente, sognatori senza limiti, osiamo la pace! “Attecchirà davvero la semente della nonviolenza? Sarà davvero questa la strategia di domani? È possibile cambiare il mondo col gesto semplice dei disarmati? [...] Le cose cambieranno, se i poveri lo vorranno” (don Tonino Bello, dicembre 1992). Crediamoci. Insieme. *Direttrice editoriale della rivista “Mosaico di pace” © Riproduzione riservata