MOLFETTA - Lo scorso 6 agosto si è tenuta presso l’Assessorato allo Sviluppo Economico della Regione Puglia una Conferenza di Servizi che ha visto la partecipazione di rappresentanti del consorzio Area di Sviluppo Industriale (ASI) e del Comune di Molfetta. Oggetto della conferenza l’approvazione del progetto di mitigazione del rischio idraulico risultante dalla decisione – presa nella precedente Conferenza di Servizi del 3 settembre 2012 – di integrare funzionalmente due progetti distinti: quello che l’ASI – con un costo, a oggi, di 90.000 euro – aveva elaborato a protezione dell’insediamento di Molfetta e quello, adeguatamente modificato, che il Comune di Molfetta aveva immaginato a protezione della ancora da realizzare nuova zona artigianale (PIP3): una sorta di “piano B” vista la piega sfavorevole che stava prendendo il ricorso contro il PAI che l’amministrazione Azzollini aveva intentato presso il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche (Tsap).
Il progetto originale del Comune di Molfetta, ricordiamo, prevedeva la creazione di un canale capace di intercettare l’eventuale onda di piena della lama Scorbeto per scaricarla nella dolina “Gurgo” a poche centinaia di metri dal Pulo. Scartata questa ipotesi progettuale – non per la sua evidente assurdità paesaggistica quanto per la insufficienza del “Gurgo” a contenere i volumi idrici previsti – l’ amministrazione Azzollini aveva chiesto al corsorzio ASI di integrare funzionalmente i due progetti in modo da convogliare la “mena” della Scorbeto nel cosiddetto “canale di gronda” progettato dall’ASI con sbocco a Cala San Giacomo, in cui confluirebbero anche i rami destinati a intercettare le eventuali piene di Lama dell’Aglio, canale Savorelli e Lama Marcinase, le lame cioè che una volta attraversavano il territorio ASI e che oggi sono minacciosamente interrotte ai suoi confini.
L’unificazione dei due progetti fu allora presentata come una soluzione razionale a un problema che l’insediamento ASI e la nuova zona artigianale avrebbero in comune. Si trattava invece di un raggiro ideologico: con l’unificazione dei progetti si asserisce implicitamente che le due aree condividano simili condizioni di rischio, mentre non è affatto così.
La zona ASI è stata realizzata quasi vent’anni fa in totale spregio delle emergenze geomorfologiche e paesaggistiche, ignorando le segnalazioni e gli allarmi che il circolo cittadino di Legambiente non ha mai mancato di lanciare a Enti preposti, attori politici e opinione pubblica: quando è stata invitata alle Conferenze di servizi ha chiesto ripetutamente di sottoporre la proposta del canale di gronda a Valutazione di Impatto Ambientale, procedura non obbligatoria per come è stato riproposto il progetto (eliminazione delle vasche di accumulo) ma comunque opportuna visto l’impatto negativo sul territorio. Sembra strano che, invece, Legambiente Puglia non sia stata invitata all’ultima Conferenza dei servizi indetta dalla Regione.
Con il suo progetto di mitigazione del rischio idrogeologico l’ASI cerca di rispondere a una situazione gravissima, creata dal nulla dall’ottusità di processi decisionali opachi e insensati. Ma anche se lo fa proponendo un piano altrettanto devastante dal punto di vista paesaggistico quanto opaco sotto quello dei processi decisionali, non vi è alcun dubbio che il rischio idrogeologico per la zona ASI sia un fatto reale. Al contrario il progetto a protezione del futuro PIP3 servirebbe a evitare un rischio del tutto virtuale, perché del futuro insediamento ancora non è stato realizzato nulla: né capannoni, né infrastrutture.
Quasi che vent’anni di presa di coscienza sulla funzione delle lame e sulla importanza identitaria – e quindi economica! – del paesaggio fossero passati invano, l’amministrazione Azzollini aveva progettato un’opera devastante non per evitare un rischio esistente, ma per poter realizzare un’altra desolante colata di cemento non solo inutile ma addirittura dannosa sotto ogni aspetto economico: perché, bisogna dirlo con chiarezza, anche se ci fosse bisogno di nuovi insediamenti produttivi (cosa tutta da dimostrare) non esistono ragioni per realizzarli proprio lì, costringendo i contribuenti a farsi carico anche dei costi per i lavori necessari a ridurre il rischio idraulico. E non esiste nessuna ragione economica – sono anni che Legambiente chiede che venga mostrato uno straccio di progetto economico a giustificazione del piano – per realizzare i due tanto osannati grattacieli, ciascuno di 80metri di altezza, tanto vicini all’area archeologica del Pulo che risulterebbero visibili dall’interno della dolina.
Non è che il canale di gronda progettato a protezione dell’ASI sia un’opera meno insensata: deve essere chiaro che non servirà affatto a ridurre gli allagamenti che si verificano nella zona industriale a ogni acquazzone: il canalone, largo venticinque metri e profondo tre che eliminerà 5.000 alberi produttivi, scaverà 359.000 m3 di terra e roccia, occuperà 164.000 m2 di suolo agricolo, si allungherà per la nostra campagna per quasi 10 km – ricettacolo elettivamente perfetto per ingoiare ogni schifezza prodotta nel raggio di decine di chilometri – ma si manterrà sempre ben alla larga dal territorio dell’ASI. In compenso sconvolgerà il reticolo di strade vicinali e l’accesso ai fondi, interromperà le condotte già realizzate per il riutilizzo in agricoltura dell’acqua a bassa qualità (acque reflue depurate), costringerà a spostare i tralicci per le linee elettriche e telefoniche, il tutto per la cifra stimata al ribasso di circa 25 milioni di euro. Quest’opera imponente quanto devastante servirà solo a impedire eventi disastrosi che una eventuale piena proveniente dalla Murge potrebbe provocare alla zona industriale, sempre che il possibile deposito di rifiuti, nel frattempo scaricati abusivamente all’interno del canalone, non ne abbiano compromesso la funzionalità.
L’integrazione in un unico progetto dei due tronchi consente anche di confondere provenienza e destinazione dei finanziamenti.
Il tronco a protezione dell’ASI ha ricevuto un primo finanziamento CIPE da 8 ml di euro e un secondo più recente da Puglia Sviluppo di 6 ml che non sono finalizzati né al progetto in questione né più genericamente a opere di mitigazione del rischio idrogeologico, bensì a miglioramenti infrastrutturali in genere ma sempre relativi alla zona ASI. Il ramo comunale verrebbe finanziato da fondi propri – chissà poi da dove si dovrebbero andare a prendere – per circa 1,5 milioni di euro, cifra decisamente insufficiente. L’integrazione dei due progetti sembra voler consentire non solo di spostare i finanziamenti che dovrebbero servire a protezione della zona ASI a protezione del PIP3, ma addirittura di dare la precedenza sul resto del progetto.
Una Amministrazione Comunale consapevole del grande valore economico e paesaggistico della nostra campagna:
- dovrebbe rinunciare al piano di mitigazione del PIP3, non essendo in alcun modo accettabile che si scelga di ridurre in via preventiva un rischio che ancora non esiste
- dovrebbe rivedere fabbisogno, localizzazione e criteri di assegnazione dei lotti della nuova zona artigianale: non tutta l’area è soggetta a rischio e la parte sicura potrebbe essere assegnata; e nell’improbabile caso che restassero altre richieste si potrebbe immaginare un protocollo d’intesa con l’ASI, che dispone di innumerevoli capannoni e aree non utilizzate (completando il Censimento da noi richiesto al Comune nell’aprile del 2012), evitando però che questo possa diventare una scusa per una ulteriore espansione a valle della ferrovia nell’area di pertinenza dell’Oasi di protezione di Torre Calderina per la quale vanno previsti diversi scenari di tutela e valorizzazione.
Una Amministrazione Comunale che ha fatto del “consumo zero di suolo” una delle parole d’ordine della sua campagna elettorale dovrebbe dire a chiare lettere che il canale di gronda non potrà mai essere realizzato perché del tutto incompatibile con le norme a difesa del paesaggio e soprattutto con la visione politica che i molfettesi hanno scelto votando come sindaco Paola Natalicchio, invitando caldamente il consorzio ASI a pensare, in collaborazione con l’Ufficio Tecnico Comunale, un piano di riedificazione ambientale che vada nella direzione di riattivare il corso originale delle lame.
E infine dovrebbe respingere al mittente le eventuali accuse di chi dovesse sostenere che rifiutando questi progetti non si vuole lo sviluppo economico della nostra città: a non volere lo sviluppo sono coloro che vogliono devastare la campagna e ridurla a discarica.
L’ “opzione zero” – quella per cui si rifiuta un’opera pubblica perché foriera di danni maggiori dei vantaggi previsti – opzione prevista in tutte le procedure autorizzative – è un baluardo contro l’irrazionalità e l’arbitrio: senza, saremmo costretti a veder realizzare qualunque cosa abbia avuto la ventura di ricevere un finanziamento dal concorso di qualche politico e di qualche burocrate a cui non è venuto in mente altro modo per spendere i soldi pubblici che quello di fare la felicità delle solite ditte specializzate nel movimento terra e nel ciclo del cemento.
Ancora una volta, come già successo nella vicenda del porto, rischiamo di assistere alla attivazione di un meccanismo consolidato che con una serie di passi apparentemente corretti applica leggi e regolamenti stravolgendo completamente l’intento del legislatore, devastando il territorio e compromettendo la qualità della vita dei cittadini e la loro salute in nome di uno “sviluppo” soltanto immaginario.
Infine un appello all’Amministrazione Natalicchio: opere di questa portata meritano di essere ampiamente conosciute dall’opinione pubblica. Tutti i portatori di interesse devono potersi pubblicamente confrontare al fine di redigere uno schema che metta a confronto danni e benefici. E questo confronto non può non avvenire che nella piena visibilità garantita dai luoghi deputati al pubblico confronto quali il Consiglio Comunale e il Forum di Agenda XXI.