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Le ville storiche di Molfetta Villa Pomodoro (parte II)
15 aprile 2024

Percorrendo la strada Provinciale per Terlizzi a metà percorso tra Via L. Azzarita e Via G. Falcone a destra vi sono diverse ville abitate; una di queste è villa Pomodoro, che si riconosce per lo stemma in alto sulla porta principale. La caratteristica della villa è che per accedere al piano rialzato ci sono quattro rampe di scale due a destra e due a sinistra, che portano ad un pianerottolo. Sul fronte del pianerottolo vi è un cerchio dove è riportato uno stemma: un campo diviso da una fascia che da destra scende a sinistra con 3 grani; la parte superiore a sinistra ha 3 stelle, la parte inferiore destra ha 3 monti. Sulla porta d’ingresso vi è un’iscrizione: “IN QUESTA CONTRADA DI S. ALESSIO L’AVVOCATO GERARDO POMODORO FABBRICAVA NEL 1875 QUESTO CASINO PER MEMORIA AI FIGLIUOLI CHE SI AMASSERO FRA LORO ESEGUISSERO DEGLI ANTENATI I CIVILI ESEMPI”. Lo stemma in alto è sormontato da una corona di nobile. Nel 1889, l’avv. Gerardo donava a suo figlio Giovanni la casa di villeggiatura prospiciente la nuova strada per Terlizzi in contrada Sedelle o S. Alessio, composta da 8 vani. VILLA LIOY LUPIS Lungo la strada provinciale Molfetta-Terlizzi, subito dopo l’uscita dell’autostrada A14, andando verso Terlizzi sul lato destro, vi è un villino con una chiesetta. Sulla facciata principale del villino si trova una lapide sovrastata da due stemmi nobiliari delle famiglie Lioy di Terlizzi e Lupis di Molfetta. Nel 1812 al tempo della costruzione della strada Molfetta Terlizzi il fondo era di proprietà del barone Paolo Brayda fu Pasquale. Questi l’8 agosto 1827 per atto del notaio Luigi Morvillo di Napoli donò le sue proprietà ai suoi figli: Salvatore, Pietro e Vincenza. Per divisione per lo stesso notaio del 13 maggio 1828 il fondo andò a Vincenza. Con atto del notaio Matteo Massari del 5-12-1857, Vincenza Brayda lo vendette al sacerdote don Mauro de Fazio. In seguito il de Fazio costruì 3 stanze per suo diletto. Per atto del notaio Michele Romano del 23-9-1870 il de Fazio vendette il fondo con la casetta a don Gaetano Lioy Lupis. Don Gaetano migliorò il fondo piantando alberi da frutto; ingrandì le tre stanze aggiungendovi altre cinque stanze più la cantina. Vi aggiunse la cappella ad uso pubblico, la stanza del torraro oltre alla stalla e rimessa per mettervi la sua carrozza, poi cinse la villa di un giardino di agrumi e fiori, fece scavare una cisterna per innaffiare e una vasca con una fontana a zampilli per i pesci e piante acquatiche. Sull’ingresso principale fece murare lo stemma dei Lioy di Terlizzi e quello dei Lupis di Molfetta e una iscrizione: “ALTIUS PROIECTIS / TRIBUS AEDICULIS IAM EXCITATIS AN(NO). MDCCCLXIV / AC AEDIBUS HINC INDE ET POSTICA / SCITE ADSTRUCTIS / ABBAS CAIETANUS LIOYLUPIS / VILLULAM CUM FUNDO EMPTAM / AMPLIAVIT ELEGANTIOREMQUE FECIT / MDCCCLXXI”. Il 14 giugno del 1874 l’abate don Gaetano Lioy-Lupis inoltrò una domanda alla locale Curia per ottenere il permesso di costruire una chiesetta presso il suo villino sulla via per Terlizzi, in contrada Piscina Michele, dotandola di un terreno dell’estensione di 15 ordini, situati accanto alla chiesa. Il 10 settembre del 1875 ebbe il benestare e, successivamente, il 10 ottobre don Pasquale Ciccolella, cancelliere della Curia Vescovile, benedisse la chiesetta e celebrò la santa messa. Sull’altare di pietra lavorata vi era un quadro raffigurante la Madonna delle Grazie con S. Gaetano da Thiene, titolare della cappella. Sul frontone della chiesetta vi era una scultura a bassorilievo in pietra calcarea, raffigurante una Madonna col Bambino. Sull’architrave della porta d’ingresso è incisa la data “1874”. Il villino e il fondo circostante sono segnalati tra le proprietà che l’abate Ga-etano Lioy-Lupis possedeva nel 1893. Nel 1921 la chiesetta fu ispezionata in seguito alla S. Visita di Mons. Agostino Migliore. Morì nello stesso anno l’abate don Gaetano Lioy Lupis. Gli eredi vendettero la villa a Pasquale Lapomarda che a sua volta con atto del 17-1-1936 del notaio Sergio Azzarita la vendette al sacerdote don Vitangelo Solimini (1882-1966). Il 5-4-1965 Daniela Bufo A distanza di due anni dalla risoluzione del caso delle sorelle Bedin, il luogotenente Gaetano Ravidà vive ancora l’altopiano di Asiago come uno straniero che cerca di trovare la sua dimensione, lontano dalla sua terra. Senza la moglie o, meglio, l’ex moglie e le sue figlie, il suo è un presente sicuramente sereno ma a tratti malinconico. Percepisce le montagne che lo circondano, teatro di alcune delle più sanguinose battaglie della Grande Guerra, come “terra di nessuno” per questo spontaneamente suggerisce di chiamare proprio così il nuovo caso che lo vede protagonista. “Il delitto della montagna” segna il ritorno al romanzo di Chicca Maralfa, edito Newton Compton. Tutto ha inizio con un’inchiesta riguardante reati ambientali, a seguito di una denuncia anonima. Alcune cave di marmo dismesse da tempo vengono utilizzate come deposito illegale dalla mafia del Brenta. Perlustrando quelle pareti di roccia, in un cunicolo, Ravidà e i suoi trovano il cadavere di un uomo, senza identità, mummificato. Mentre si cerca di dare un nome alla vittima, altre due persone muoiono in circostanze misteriose, gettando di nuovo la piccola comunità nell’incertezza. Ad una prima analisi, i fatti non sembrano essere collegati. Paralleli all’indagine scorrono sempre la vita, i pensieri del luogotenente e gli interrogativi dell’anima sulla sua storia d’amore ancora clandestina col medico legale Maria Antonietta Malerba. Sono questi i giorni della merla, i più freddi dell’anno e una coltre di neve copre tutto col suo bianco portando un’apparente stasi. Un silenzio caratteristico della riservatezza degli abitanti del posto. Solo che qui riservatezza fa rima con omertà. Però il tempo stringe e Ravidà, indagando senza sosta, incrociando le varie fonti di nuovo tra passato e presente, arriva a provare che i delitti sono tutti legati tra loro. Alla fine, un colpo di scena mette a posto tutti i tasselli del puzzle e il caso viene risolto. La Maralfa, anche stavolta, ci racconta una storia rendendo convincente la narrazione grazie a dettagli che solo chi vive i luoghi dell’altopiano vicentino saprebbe cogliere. Lei, nata a Molfetta e cresciuta a Bari. Per sua stessa ammissione il giornale L’Altopiano, speditole regolarmente a casa da una sua cara amica, è stato fondamentale, fonte inesauribile per la documentazione sulla vita del territorio. E si vede. Le sue descrizioni hanno l’efficacia di una fotografia, un racconto “visivo e interiore”, proprio come quello del regista Ermanno Olmi, da lei ringraziato nelle note finali. Il tributo a Mario Rigoni Stern, militare nonché uno dei più importanti scrittori italiani, nato e vissuto ad Asiago, chiude il cerchio. Come lei, infatti, Stern descrive il paesaggio con essenzialità, costruendo emozioni profonde in poche righe. Questa credo sia la forza anche della scrittura di Chicca Maralfa, ormai una promessa mantenuta. © Riproduzione riservata Il nuovo giallo di Chicca Maralfa nella ormai nota cornice dell’Altopiano vicentino Il delitto della montagna il Solimini per atto del notaio Donato d’Amato la donò alle Missioni della Consolata di Torino al fine di aprire uno studentato ai futuri sacerdoti. Non essendo più economico tenere aperto lo studentato la Missione della Consolata vendette a sua volta la villa al dott. Domenico Casamassima che con cura l’ha restaurata. Oggi è sede dello studio dentistico Casamassima.

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