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Le parole, i silenzi di Ada De Judicibus Lisena
15 gennaio 2009

Con “Le parole, i silenzi. Versi e prose” Ada De Judicibus Lisena ci dona un'opera di struggente, melanconica bellezza. Una silloge dall'architettura estremamente raffinata, le cui direttrici si intravedono sin dalla scelta, per la copertina, di un ritratto di Jeanne Hébuterne, allieva, modella e compagna di Amedeo Modigliani, morta suicida dopo la tragica scomparsa del pittore. È l'esplorazione di un femminino pensoso, elegante e appassionato, spesso fragilmente eroico, un po' acchiappanuvole a rappresentare il fil rouge della raccolta, introdotta da una bella presentazione di Pasquale Matrone. Le epigrafi di Gibran e Caproni sono accomunate dal rinvio alla dialettica parola/silenzio (“L'onda delle parole ci sovrasta, / i nostri abissi sono sempre muti” - Gibran), adombrata nel titolo della silloge, e al mistero dell'estrinsecarsi dell'espressione poetica. “Le parole, i silenzi” si apre all'insegna del fascino settembrino, “mese in abito grigio”, che si presenta alla finestra di Ada come “un amante discreto”, pacatamente sensuale, e si conclude con il racconto del rifiuto, da parte di una giovinetta (la poetessa, suppongo), di una tavoletta di cioccolata offerta da un americano in una “luminosa mattina di ottobre”. Sono i colori dell'autunno a dominare nel volume della De Judicibus, che più volte cede alle vaghe luminescenze crepuscolari o a un'oscurità in cui la poesia si leva flebile come un sussurro. La prima sezione è consacrata ai versi e declina dolcemente verso la seconda, in cui trovano collocazione due “ipotesi” (così ama definirle la loro autrice), arabescate sulla scorta di leggendarie storie molfettesi, una notizia a metà tra filologia e rêverie e due brevi racconti (“Una notte d'agosto” e “Un rifiuto”). Una complessa rete di rimandi e corrispondenze tra i momenti della silloge consente di constatare come nulla nella più recente fatica della De Judicibus sia casuale. Una conferma di questa considerazione risiede nel fatto che, nella raccolta, la scrittrice ha ripubblicato alcune liriche precedentemente edite, apportando ai componimenti alcune varianti o comunque inserendoli in un'intelaiatura, che ne potenzia le delicate implicazioni esegetiche. La poesia della De Judicibus ha “il fascino dell'interiorità”; stabilisce sottili analogie: nella sua grazia 'opalescente' fioriscono accostamenti suggestivi che assimilano lampioni a “ceri votivi” e “la lontana città” che “biancheggia” a un altare. In essa vibra un che di sacro, sia che evochi spettri che comprimono l'ambiente domestico in una “strettoia” di angosce, sia che alluda alla fascinazione della musica o alla “grazia di efebo” di Francesco, “albero snello / che gioca col vento”. I versi più belli ci paiono quelli composti in “Epicedio” di un'ombrosa compagna di classe, “la donna senza grazia e sorriso”. L'elegiaca armonia dell'epitaffio a nostro parere eguaglia la composta beltà di epigrammi di Anite di Tegea (mi riferisco al celebre epicedio per il grillo e la cicala di Mirò). In quell'“ignara d'amore / ignorata ci passasti accanto” affiora, cristallino, il mondo interiore di un'anima che ausculta i ritmi del cosmo (penso alla lirica “Un richiamo”) per restituirne, sommessa, le più segrete vibrazioni. Un atteggiamento di pensosità lega idealmente Ada alle due eroine pennellate nelle sue delicate “ipotesi”: Giovanna, monacella, e la celebre Rosa Picca. L'una scruta il mare da una grata; l'altra, Rosa, le viuzze borghigiane da una finestra, quella della sua casa di giovane sposa e futura madre. La monacella si perde, pudicamente, senza chiassosità, in un fremito d'amore, ch'è anche affinità elettiva, per un saraceno. Le sue fantasie di volo, tarpate da un'infanzia negata e da una monacazione innaturalmente naturale, si concretizzeranno quando, trasformata in gabbiano con le sue compagne secondo la leggenda, prenderà a librarsi sullo scoglio su cui sorgeva il convento. Il volo di Rosa, ben diverso, è il mortale frangersi di un piccolo regno domestico all'insegna del candore cromatico; magistrale la scena dell'arrivo del soldato e del suicidio della Picca. La pensosità propria dell'eroina sembra, per un istante, appannaggio anche del suo inebetito carnefice: “Il soldato guardò il cielo vuoto e ristette, incredulo”. Potremmo forse credere anche lui contagiato, tardivamente, dall'attitudine contemplativa delle creature di questa scrittrice dalle “radici terrose”, che ci commuove nell'infinito “vagheggiare le nuvole”, “rincorrere la poesia”.
Autore: Gianni Antonio Palumbo
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