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La villeggiatura a Molfetta nel secondo Cinquecento Frammenti di storia
15 luglio 2007

La villeggiatura è una moda tutta italiana. Che sia nata davvero in Italia lo dimostrano l'inglese del primo Settecento villeggiatura, preso pari pari dal toscano, e il francese del secondo Settecento villéggiature, appena adattato nella pronuncia d'oltralpe. Il termine villeggiatura risulta impiegato già dal letterato e scienziato aretino Francesco Redi, nel Libro di Ricordi, a cominciare precisamente da un'annotazione del 20 giugno 1672: «Ricordo come questo giorno suddetto tornò la Corte dalla villeggiatura del Poggio Imperiale». Naturalmente la testimonianza del Redi è solo l'indizio di un consolidamento già avvenuto in ambiente toscano, tanto è vero che nel Cinquecento era già diffusa la voce villeggiare, usata per esempio in una lettera anteriore al 1566 da Annibal Caro, il famoso traduttore dell'Eneide, che aveva una villa nei dintorni di Frascati: «Con questa libertà mi son ridotto a villeggiare nel Tusculano». La “civiltà delle ville”, la costumanza di procurarsi una residenza di campagna alternativa e soprattutto estiva da diporto, è nata nella Serenissima fin dal tardo Medioevo, ma si è diffusa a macchia d'olio da Venezia al resto della Penisola sul nascere del Cinquecento. Già il cronista Girolamo Priuli nei suoi Diarii condannava lo sperpero sfrenato dei patrizi e dei borghesi veneziani per una moda che non era più un giudizioso investimento economico, ma era diventata una vera e propria deleteria manìa: «Li nobili et cittadini veneti inrichiti volevano triumfare [= festeggiare] et vivere et prendere a darsse a piacere et delectatione [= diletti] et verdure [= giardini] in la terraferma et altri spassi assai, abbandonando le navigationi […] et compravano possessione [= appezzamenti] et chazamenti [= casamenti] in terraferma traspagando il dopio de quello [che] valevano […] et facevano palagi et spandevano denari assai, et bisognava poscia [provvedere] ad ornamenti et mobili di caxa [= casa], una charetta et cavalli excelenti cum li fornimenti [= finimenti] et tutto montava [= costava] danari». La moda della villeggiatura è documentata nel secondo Cinquecento anche a Molfetta, attenta sia ai costumi di Napoli che a quelli di Venezia. Certo per il nostro territorio non bisogna pensare a ville palladiane e rinascimentali giardini all'italiana, ma piuttosto a rustiche residenze turrite e a edenici frutteti detti paradisi. A darci ragguagli sulla costumanza locale seguita da nobili e borghesi è lo storico Giuseppe Marinelli nella sua Relazione della città di Molfetta ad Aldo Manuzio di Venezia risalente al 1583. Ecco il passo in questione: «Se poi uscendo di qua [dalla dolina del Pulo] alzaremo gli occhi sopra le tante torre et case di bona abitazione, che sono sparse per il territorio, non solo giudicaremo piacevole et ameno il concavo della cava [del Pulo]; ma diremo ancora il territorio tutto essere un vago et delicioso giardino; poiché ancora nell'estate esce quasi tutta la nobiltà, e molti degli cittadini principali, a diportarsi per quei luochi con le lor donne, chi di qua et chi là fuggendo la molestia del caldo accresciuto dalla strettezza della città, et multitudine de li abitanti». Quali erano allora i luoghi di villeggiatura per un paese in cui, soprattutto nel centro antico, si addensavano circa 8.000 anime? Nel Cinquecento inoltrato erano complessi come quello di Torre Villotta o casali come quelli di San Primo e del Mino oppure residenze come Torre Cicaloria, Torre del Gallo, Cappavecchia, Torre del Capitano, Torre Sgammirra e Torre Falcone. Dovunque oliveti, vigneti e mandorleti, ma anche carrubi e alberi da frutta, per rendere la permanenza ancora più grata ai villeggianti. E il popolino, come si comportava? Lo dice subito dopo lo stesso Marinelli: «ad imitatione di costoro [dei nobili e dei borghesi] esce ancora la plebe a picciole schiere il dì della festa, a tempo che l'uve si mostrano mature, ad trastullarsi ancor ella per le capanne et pagliari posti a tali effetti nelle lor vigne». Un altro luogo ameno segnalato dal Marinelli è l'ambiente rupestre del Pulo, con le sue grotte adatte alla caccia e con i più svariati frutti stagionali: «Et per dire quanto vi è degno di veduta, credemo che apporta non poca meraviglia quella cava profundissima ch'è dentro il territorio verso ponente chiamata Pulo. Gira ella intorno vicino ad un mezzo miglio et è forata di dentro per li lati in tante grotte meravigliose, laonde ivi si suole cacciare a varie sorte d'animali. Suo concavo è ridutto a forma di un dilettevole giardino ben arborato d'arbori di varii pomi et calcinato ancora; intanto ch'in certi luochi particolari di essa, voleno ch'in ogni tempo vi si trovino le quattro stagioni dell'anno, considerate le qualità loro». Si desume da questi passi la grande cura dedicata dai contadini ai poderi sparsi nell'agro molfettese, un aspetto che ritroverà inalterato, quasi sette lustri dopo, il 28 aprile 1617, Nicolas Bénard, un viaggiatore francese di ritorno da un pellegrinaggio a San Nicola di Bari: «Partimmo [da Bari] verso le nove del mattino e, continuando lungo la costa, giungemmo per il desinare nel vescovado di Giovinazzo e di là, continuando il detto percorso, andammo a dormire nel vescovado e principato di Molfetta. Il ventottesimo giorno, partimmo dalla detta località di Molfetta attraverso la campagna ricca di vigneti, oliveti, carrubi e mandorli, quindi passammo il vescovado di Bisceglie». Da questo momento in poi il riferimento all'abbondanza di alberi fruttiferi dei campi molfettesi sembra una costante e può ritrovarsi, prima ancora che in Giovan Battista Pacichelli (1703), anche nella Breve descrittione del Regno di Napoli di Ottavio Beltrano stampata nella capitale regnicola nel 1640: «È città molto civile, e bene habitata; da alcuni vien chiamata Morfetta, e da altri Mal[f]etta. Siede ella in un fertilissimo territorio (sicome l'altre città della medesima regione) dal quale si raccogliono tutte le cose necessarie al vitto humano, quivi anche sono màndole, oglio, aranci, limoni, & altri frutti». Domina ancora, ovviamente, una grande attenzione ai prodotti della terra, mentre erano ancora di là da venire le “smanie per la villeggiatura” goldoniane. Ma in quell'ambiente arcadico e sereno, nella salùbre quiete di Torre Falcone, sarebbero maturate all'alba dell'Ottocento le meditazioni romant icheggianti di un Giuseppe Maria Giovene in cerca di salute, intitolate – non a caso – La mia villeggiatura.
Autore: Marco I. De Santis
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