Negli ultimi anni dell’800 cominciano a sorgere ed ad organizzarsi in Italia numerose realtà associative, aventi come scopo la promozione, in diversi campi, dell’emancipazione femminile. In un primo tempo, i punti di riferimento furono sostanzialmente due: la tradizione democratica repubblicana del Risorgimento, ed i coevi movimenti sorti all’interno del liberalismo anglosassone. Le rivendicazioni riguardavano, in primo luogo, la parità nel godimento dei diritti civili, primo fra tutti quello di voto, che in quegli anni era, com’è noto, limitato anche in ambito maschile. Meno frequenti furono all’inizio dell’associazionismo femminile le denunce delle discriminazioni presenti nella pubblica istruzione e sui posti di lavoro. Con la nascita del Partito Socialista Italiano, la parte più avanzata dell’emancipazionismo femminile trovò un sostegno teorico ed organizzativo che, pur con fasi alterne e spesso vivacemente polemiche, l’accompagnò per buona parte del Novecento. Il femminismo non socialista, compreso quello cattolico, continuò ad operare, caratterizzato comunque da un evidente moderatismo. La tesi di fondo che distingue l’orientamento socialista da quello liberale sul problema dell’emancipazione e liberazione della donna, è riassumibile in termini molto generali come segue: le conquiste legali di uguaglianza formale fra uomini e donne non cambiano, se non in misura minima, le condizioni materiali di subordinazione delle donne, come le conquiste d’uguaglianza formale fra proletari e non proletari non hanno cambiato le condizioni materiali di subordinazione dei proletari. Perché le condizioni di subordinazione materiale delle donne e dei proletari cambino realmente e non solo formalmente, è necessario realizzare, tramite la rivoluzione, una società socialista nella quale possano scomparire tutte le forme di subordinazione: dei proletari rispetto ai capitalisti, delle donne rispetto agli uomini. L’interesse comune delle donne alla liberazione dalla loro sottomissione rispetto agli uomini, risiede pertanto nell’alleanza coi proletari nella lotta, preliminare e prioritaria per la rivoluzione e per il socialismo. Naturalmente, a fronte di questa piattaforma teorica, che in realtà non fu mai rinnegata, il partito di Turati non fu alieno dall’adottare, così come in altri campi, un realistico gradualismo che, a volte, portò le donne socialiste a condividere grandi battaglie con le femministe di matrice borghese. Intanto nei primi anni del Novecento, la competizione imperialistica fra gli stati europei produceva un riarmo generalizzato, inaspriva le rivendicazioni coloniali e rendeva sempre più difficile la composizione diplomatica dei conflitti territoriali. Contemporaneamente, buona parte della cultura occidentale, scriveva una delle pagine più nere della sua storia, sostenendo filosoficamente, storicamente e persino esteticamente, la corsa al massacro. In questo contesto, diventò urgente, in tutto il variegato associazionismo democratico europeo, privilegiare la lotta per il mantenimento della pace, promuovendo iniziative, incontri e convegni, anche a livello internazionale. L’associazionismo femminile socialista, e in un primo tempo anche quello liberale, furono subito coinvolti nella lotta pacifista che assistette purtroppo a progressive divisioni che giunserofascismo. Nelle note che seguono ricorderò alcune significative figure di pacifiste italiane, che tra mille difficoltà, sperimentando isolamento, persecuzioni e carcere, lottarono contro l’orrore della guerra. Per quanto riguarda l’Italia, la prima grande scissione del movimento femminista si ebbe nel 1911, quando gran parte dell’associazionismo femminile moderato appoggiò l’aggressione alla Libia, a differenza delle socialiste che la condannarono insieme al partito. Tre anni dopo, allo scoppio della Grande Guerra, i socialisti tedeschi e francesi, votarono nell’agosto del 1914 i crediti di guerra: fu la tragica fine della Seconda Internazionale. In Italia i mesi della neutralità assistettero all’indecoroso sfascio di quello che restava del pacifismo femminile borghese, accorso ad applaudire i deliri sanguinari del Signor D’Annunzio, già perseguitato dai creditori in Francia, frettolosamente rimpatriato, e miracolosamente munito di sostanziosi conti in banca, intestati a suo nome. Ed ancora una volta le socialiste, insieme al movimento giovanile, vigilarono che non si tentennasse e si restasse fermi al “né aderire, né sabotare”. Nel marzo del 1915, grazie soprattutto alla tenacia della socialista e femminista tedesca Clara Zetkin si tenne a Berna, tra enormi difficoltà un congresso internazionale delle donne socialiste, con il proposito di individuare i margini d’intervento che ancora restavano per continuare l’attività pacifista in paesi ormai belligeranti e sottoposti a restrizioni poliziesche di ogni tipo. Per l’Italia vi partecipò Angelica Balabanoff, rivoluzionaria di origine ucraina, trasferita in Italia, dirigente del PSI, e grande amica della Zetkin. Al congresso intervenne anche una delegazione di bolsceviche russe che propose, restando però in minoranza, di trasformare subito la guerra imperialista in rivoluzione comunista. Ma vediamo come nell’Italia oppressa dalla censura e dall’inasprimento delle leggi relative al disfattismo, alcune pacifiste mantennero intatti i loro ideali. Abigaille Zanetta (1875-1945), di professione maestra elementare, entrò nel partito socialista nel 1910, partecipando attivamente e con grande impegno alla vita del movimento femminile, soprattutto nel settore della scuola. Pacifista intransigente, si collocò sempre alla sinistra del partito, polemizzando aspramente con il riformismo di Anna Kuliscioff. Fu condannata a sei mesi di carcere nel luglio del 1916 per aver firmato un manifesto contro la guerra. Nel dicembre del 1917, sempre per disfattismo fu confinata a San Demetrio dei Vestini. Nuovamente arrestata nel giugno del 1918, fu scarcerata nel dicembre dello stesso anno. Nel dopoguerra entrò nel partito comunista, e nel 1927, dopo sei mesi di carcere fu definitivamente esonerata dall’insegnamento. Maria Giudice (1880- 1947), insegnante elementare, aderì giovanissima al partito socialista, e fu più volte arrestata nei primi anni del secolo per la sua attività antimilitarista. Allo scoppio della guerra prese parte attiva contro il conflitto come segretaria della Federazione torinese del PSI. Incarcerata dopo i tumulti torinesi del 1917, fu condannata dal tribunale militare e liberata solo a guerra finita. Arrestata ed incarcerata più volte durante il fascismo. Alda Costa (1876-1944), maestra elementare, iscritta al partito socialista sin dai primi anni del secolo. Nel 1916 fu nominata responsabile per la provincia di Ferrara della propaganda per la pace, accusata di antipatriottismo, fu più volte sospesa dall’insegnamento. All’avvento del fascismo, nonostante fosse ripetutamente molestata e perseguitata dal dileggio squadrista, la pacifica maestrina restò la più implacabile accusatrice della consorteria agraria ferrarese. Anita Dobelli Zampetti, socialista, riveste un ruolo di rilievo nel movimento suffragista e femminista, ma si dimette nel 1916 dalla Pro Suffragio, appena l’associazione dichiara di aderire alla guerra. Neldicembre del 1918, fu chiamata a presiedere il Congresso Socialista Nazionale, che si tenne ancora clandestino e porte chiuse. L’intento della nomina fu quello di evidenziare e rafforzare l’esistenza, anche in Italia, di una corrente femminista, pacifista ed insieme socialista, che in realtà, in piena guerra, stentava ad affermarsi apertamente nel partito per evidenti motivi di opportunità politica, in un clima di rafforzamento dell’apparato repressivo poliziesco. Nel 1919 la Dobelli, ormai su posizioni massimaliste, si adoperò perché il Congresso Nazionale del PSI, che si tenne in quell’anno a Bologna, aderisse ufficialmente al Congresso Internazionale delle Donne Socialiste, bandito a Zurigo da Clara Zetkin, che darà poi vita al Segretariato femminile della Terza Internazionale Comunista. Linda Malnati, nata a Milano nel 1855, appartenne a quel gruppo di pioniere del socialismo che nella capitale lombarda promosse la formazione dei primi nuclei di donne lavoratrici, aderenti al PSI e alle Camere Del Lavoro. Maestra elementare, fu sospesa dall’insegnamento in seguito ai moti del ’98. Nel 1916 e 1917 la polizia segnala che “nonostante l’età avanzata, è a capo del gruppo socialista femminile di Milano che si occupa della propaganda per la pace. Nei suoi confronti viene pertanto esercitata oculata vigilanza”. Morì nel 1921, e gli sbirri, almeno per lei, potevano star tranquilli. Maria Goia (1878-1924), organizzatrice di numerose Camere Del Lavoro in Romagna e nel mantovano, membro della Commissione Nazionale Femminile del PSI, al tempo della guerra libica guidò coraggiosamente la campagna per la pace, stendendosi sui binari con altre donne per fermare i treni che portavano gli uomini al macello. Nel 1915 condusse un’attiva propaganda contro il conflitto, per cui fu arrestata e internata. Uscita dal carcere fortemente minata nella salute, riprese subito la lotta politica. Morì a Cervia di Romagna nel 1924. Rosa Genoni (1867-1954), nativa di Tirano, era una giovane ragazza di montagna quando a 18 anni si era trasferita a Parigi per seguire da vicino le sfilate di moda e copiare i modelli, per poi, tornata a Milano, confezionarli per la sartoria presso cui lavorava. Si mise presto in proprio e diventò una modista di grande successo. La Genoni, che insegnò per molti anni presso la scuola professionale femminile della Umanitaria di Milano, va ricordata anche per il suo impegno pacifista. Dal 1915 al 1917 fu costantemente vigilata dalla polizia per l’infaticabile opera da lei svolta per la propaganda non violenta in favore della pace. Dal 28 aprile al 1 maggio 1915, partecipò all’importantissimo Congresso Internazionale delle Donne per la Pace, svoltosi all’ Aja, con centinaia di aderenti provenienti da tutto il mondo. In quell’occasione il pacifismo internazionale femminile lanciò a tutti i governi responsabili della grande carneficina un duro messaggio di denuncia e di accusa. Il suo dichiarato atteggiamento antifascista costrinse la Genoni a lasciare nel 1925 il suo insegnamento all’Umanitaria ed a ritirarsi in provincia. Per finire un accenno ad una socialista che ci interessa da vicino. Rita Maierotti nacque a Castelfranco veneto nel 1876 e aderì giovanissima al socialismo. Diplomatasi maestra elementare, svolse un’intensa attività pubblicistica, soprattutto sui giornali che affrontavano i temi legati all’educazione, alla parità di genere e alla pace. Nell’ottobre del 1915 vinse un concorso nelle scuole comunali di Bari e si trasferì nel capoluogo. Negli anni della guerra, la sua presenza viene costantemente segnalata in numerosi comuni delle province pugliesi dove tiene, soprattutto tra le masse femminili, appassionate conferenze contro la guerra. Nel maggio del 1916, per la sua intensa partecipazione alle numerose agitazioni antimilitariste, fu sospesa dall’insegnamento e, munita di foglio di via obbligatorio, rimpatriata a Treviso, dopo essere stata denunciata al tribunale militare. Nell’agosto dello stesso anno, tornò in Puglia e continuò la militanza pacifista, con frequenti puntate al nord, dove si tenevano riunioni della frazione intransigente. Dopo il Congresso di Livorno del 1921, aderì al Partito Comunista. Cominciò per lei una durissima e lunga vita di clandestinità, carcere, espatrio, povertà. Morì a Treviso il 30 gennaio del 1960. I brevi cenni biografici qui raccolti, riguardano soltanto alcune tra le più note pacifiste italiane che si opposero alla follia della Grande Guerra. Molte altre, diverse centinaia, lottarono in tutto il Paese, restando ignote alla cosiddetta grande storia: mentre è proprio la “loro” storia che andrebbe ricostruita e scritta. I lettori avranno notato che queste donne furono quasi tutte delle maestre elementari: io credo che non sia un caso. Il quotidiano contatto con bambini provenienti da classi umili, ulteriormente impoverite dalla guerra, i cui padri morivano inutilmente a centinaia di migliaia per gli schiamazzi della teppa interventista e la viltà del Parlamento, suscitava in loro un moto di rivolta e le spingeva a fare quanto possibile per evitare ai loro scolari il prosieguo di quell’orrore. Ada Costa, accusata nel 1916 di antipatriottismo perché, come maestra, si rifiutava di condurre i suoi scolari alle manifestazioni celebrative della guerra, così rispose sul suo giornale, “Bandiera Socialista”: “È possibile che ai fanciulli non si possa insegnare ad amare la propria terra, ad apprezzarne le bellezze, a volerla civile e stimata, senza far balenare loro davanti agli occhi immagini di rovina, di ferocia e di morte? L’amor di patria sta dunque tutto nella esaltazione della guerra? C’è, nell’atto da me compiuto la reazione a tutto questo indirizzo educativo e c’è l’affermazione che la scuola deve essere umana e universale e prima fattrice di quei sentimenti di vera fratellanza che dovranno pure un giorno governare il mondo”