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La cultura dell'indifferenza a Molfetta
23 dicembre 2011

MOLFETTA - A Molfetta sembra diffondersi sempre più un’idea di informazione e di cultura fondata sull’ “apoliticità”, che pretende di sganciare la valutazione dei fatti e il significato delle iniziative da sostrati di matrice politica e ideologica. Si tratta di un fenomeno tipico della dispersione della cultura postmoderna che, allontanandosi dalle grandi narrazioni della modernità, ha perso qualsiasi punto di vista sul reale, ripiegandosi in sé, sfuggendo al confronto con la realtà stessa.
E’ chiaro che qualsiasi posizione interpretativa ha già in sé un risvolto politico, indirizzandosi verso la critica o la legittimazione dello stato di cose esistente. E la neutralità, assunta come cifra costitutiva negli ultimi tempi dall’informazione e dalla cultura cittadine, non può che poggiarsi sull’ordine preesistente, configurandosi come modalità di conformazione acritica a tale situazione predefinita. Tale posizione è già di per sé politica ma, poiché tale risvolto non è neppure colto, il gioco è fatto. La cultura viene a posizionarsi, in tal senso, ai margini del meccanismo politico-sociale esistente, chiudendosi nella propria autosufficienza. Pretendendo di poter interpretare il mondo nella chiusura al mondo stesso.
Ma la cultura autentica, penetrando nelle ragioni della realtà, nell’atto stesso di aprire le proprie categorie e di porle in gioco, rimette il reale stesso in questione. Lo smuove piano dalla solidità assoluta in cui l’indifferenza postmoderna lo ha condotto, per riportarlo all’orizzonte storico e culturale in cui le nostre stesse categorie di giudizio e le nostre modalità di esistenza si sono formate. La cultura autentica non può sfuggire tale domanda di fondo sul reale, senza cadere nell’organizzazione totale dell’essente a cui il nostro momento storico ci consegna.
La cultura postmoderna, pretendendo di depurarsi da qualsiasi residuo ideologico e politico, ha finito per chiudersi al reale stesso, ripiegando l’interpretazione in se stessa.
Il corrispettivo, in ambito giornalistico, consiste nella cieca adesione al fatto, quasi esso fosse astratto dalle categorie culturali, sociali e politiche che fanno la stoffa del nostro orizzonte conoscitivo di appartenenza. In entrambi i casi la neutralità si traduce in ignoranza e indifferenza, muovendosi inconsciamente all’interno del modello politico attuale, rinsaldandolo.
Prendere coscienza di tale meccanismo è forse l’unico modo per riprendere posizione nella sfida col reale e per rimettersi in gioco in una città che sfugge sempre più al nostro controllo. Ma qui la partita si fa tutta culturale e insieme politica e richiede l’impegno dello studio serio, dell’analisi e dell’indagine.

 
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Autore: Giacomo Pisani
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La partita è solo culturale, lo "zoccolo duro" del postmodernismo, e non solo a Molfetta. La malattia dell'indifferenza ha colpito tutto il pianeta, richiedendo "l'impegno dello studio serio, dell'analisi e dell'indagine". Quanta sofferenza dovremmo patire prima di vincere il male del secolo? La superficialità della vita di tutti i giorni, l'affanno con il quale cerchiamo di raggiungere gli obiettivi che sono stati prefissati per noi. Siamo tutti universi paralleli, perché ognuno teme l'altro, nessuno si sforza di capire, di sentire, dando libero sfogo alle atrocità più impensate. Ergersi contro l'indifferenza, continuamente reiterata in poliptoto per adombrare uno stato morale precario nato dalla consapevolezza di essere inadatti a condurre una vita problematica in una società priva di valori autentici e senza alcuna speranza di rinnovamento, metafora di un contesto teso all'autodistruzione, metafora del Fascismo….STIGMATIZZARE “l'uomo che se ne va sicuro e l'ombra sua non cura” (Montale, Non chiederci la parola,1923), mimetizzato tra “passanti distratti e noncuranti, affetti dall'indifferenza dell'uomo verso l'uomo, dotati di una moralità precaria e asservita all'interesse personale all'uomo decadente che si muove in un mondo privo di incertezze e di valori” – Che è molto più importante “rendersi protagonisti della propria tragedia piuttosto che spettatori della propria vita inerte” (Oscar Wilde, 1854-1900) – VIVERE; NON ESISTERE, in una continua sfida, con un continuo mettersi in discussione, essere una risorsa rinnovabile in progressiva e incalzante metamorfosi, combattere l'indifferenza che “massima essenza della disumanità, è un virus con resistenze capaci di distruggere i valori sacrosanti della solidarietà, della condivisione, della propensione al dialogo (George Bernard Shaw). – “Odio gli indifferenti”. Ma poi occorre l'intelligenza, se si vuol provare a cambiare. L'intelligenza per cogliere i molti malesseri della società italiana, quelli che ancora oggi sono irrisolti: la nullità della classe politica; il trasformismo; l'assenza del senso dell'istituzione parlamentare nella coscienza pubblica; il conflitto politico-magistratura; la scuola; gli scandali; la dimensione astratta della libertà nella vita politica; il perbenismo. Intelligenza, tuttavia, non significa solo “essere puntuti”, ma anche scavare nelle parole arroganti dell'avversario e costringerlo, appunto, con l'intelligenza, nella difensiva. La politica non è mai solo forza, è anche autorevolezza. E l'autorevolezza dei “senza potere” si chiama intelligenza. Con l'intelligenza si “combatte” la tirannia della maggioranza che è ammissibile nei piccoli paesi dove tra i cittadini regna una certa uguaglianza di condizioni; è disastrosa invece dove fra i cittadini vi è molta disuguaglianza di condizioni. “Quando discuti con un avversario prova a metterti nei suoi panni, lo comprenderai meglio….Ho seguito questo consiglio ma i panni dei miei avversari erano così sudici che ho concluso: è meglio essere ingiusto qualche volta che provare di nuovo questo schifo che fa svenire. (Antonio Gramsci - 1891 – 1937)

Il "dispotismo democratico" partorisce l'indifferenza. E' stato Tocqueville a segnalare con grande chiarezza i rischi propriamente dispotici della democrazia, il destino inevitabile dell'umanità – un destino che conviene guidare, se non se ne vogliono subire gli effetti negativi. Al processo democratico sono infatti intrinseci due esiti possibili: si può diventare tutti uguali e tutti schiavi oppure si può diventare tutti uguali e tutti liberi. Di che cosa aveva paura Tocqueville? In democrazia ciò “che infatti nasce e si sviluppa è un potere sociale che assume direttamente il controllo di tutti, togliendo autonomia e responsabilità ai singoli individui, i quali a loro volta delegano a questo potere la gestione della loro vita, rinunciando alla libertà.” Si tratta di una partecipazione che alla fine, grazie al potere di delega, può dare origine ad una limitazione di questo stesso potere, tenuto a disposizione di un ristretto gruppo chiamato a gestirlo per tutti: si tratta di un dispotismo democratico di nuovo modello, “una realtà del tutto diversa per natura, caratteri, funzioni, regole di sviluppo e di applicazione” . Questo tipo nuovo di dispotismo investe “l'uomo nella sua interezza, la struttura stessa della sua personalità. Anzi, è una tirannia non sul corpo, ma sulla mente, e se non si serve della forza lo fa in modo invisibile”. Tutto questo non è meno pericoloso, perché ha “un obbiettivo preciso: distruggere l'autonomia dell'individuo” originando passiva accettazione, inerzia psicologica, in uno sviluppo deteriore del vivere sociale. Pur tuttavia Tocqueville ha fiducia nella politica che “ ha il compito decisivo di ricostituire i vincoli spezzati attraverso una serie di associazioni politiche e sociali che hanno la funzione di difendere, rafforzandole, l'autonomia e la responsabilità di ciascuno, salvaguardando la libertà”. La politica ha in sé una capacità di risorse che può spendere se lo vuole con i suoi corpi ed anticorpi. Alla base del nuovo dispotismo democratico ci sono infatti profondi processi di trasformazione della nostra società. In questi ultimi vent'anni l'Italia si è ripiegata, chiudendosi in se stessa, dando sfogo agli istinti peggiori sia verso l'esterno che all'interno”. Di fatto ci si è fossilizzati rinunciando ad una visione sul futuro, sulla dinamica sociale, ad un rinnovamento generazionale, e ci si è impoveriti, sia socialmente, sia moralmente. Abbiamo assistito ad una pericolosa retromarcia; si è lasciato prosperare l'individualismo e l'egoismo. “Il nuovo dispotismo non parla, infatti alle classi, ai movimenti collettivi, si rivolge agli individui, ad individui isolati, privi ormai di identità comuni, chiusi nei loro interessi e pronti a dislocarsi a destra ed a sinistra, a seconda delle loro convenienze”. Non più il bene comune, esteso ad una visione collettiva, ma un rigoroso e riduttivo particolarismo. Il nuovo dispotismo accoglie anche una visione populistica della gestione del potere, si estende a tutti gli ambiti, anche a quello religioso. A questo punto, che fare? Occorre accogliere “tutte le forme di democrazia diretta, ma per poter riaffermare la forza ed il primato della democrazia rappresentativa”, quindi il ruolo centrale del Parlamento. “Per riprendere le limpide battute di Kant, oggi la volontà pubblica viene esercitata come una volontà privata”: questo è in sintesi il dispotismo che si sente al di sopra della legge e la calpesta. Le disuguaglianze sociali, poi, rappresentano un altro grave problema che può diventare elemento di profondo disturbo, di turbativa sociale. Inoltre, il diffuso uso dei media ha originato modi di pensare, di essere, di porsi, che incidono sulla realtà dandone una visione distorta. Occorre, a questo punto, un ripensamento ed una riappropriazione. “Una politica democratica presuppone anzitutto che gli individui si riapproprino delle forze proprie di cui sono stati spossessati dal nuovo dispotismo: questo è il punto decisivo” .

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