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L'indice di sgradimento dell'ospedale di Molfetta
15 settembre 2002

Sessantacinque persone su cento non gradiscono l'ospedale di Molfetta. Sessantacinque persone su cento scorazzano per la provincia con un solo scopo: un ospedale decente dove curarsi. Sessantacinque persone su cento, dicono i geni della politica, sono responsabili della rovinosa fine dell'ospedale di Molfetta. Perché non hanno frequentato i luoghi della sanità nostrana e hanno preferito l'erba del vicino. Ma che motivo avevano i cittadini molfettesi di varcare le mura, per importunare medici e ospedali “stranieri”? Proviamo a dare una risposta. E quale occasione migliore di una giornata in corsia? Sul campo, come si dice, a raccogliere testimonianze e piccoli segreti di un ospedale in crisi. Si comincia dall'ingresso. Lì la guardiania dovrebbe essere vigile. Siamo in un ospedale, perbacco: tranquillità e sicurezza dei malati dovrebbero essere tra le priorità. Invece scopriamo che un ingresso non si nega a nessuno, persino ai venditori ambulanti. Un cinese, agghindato all'uopo, si aggira nel reparto di ortopedia, tentando di piazzare la sua merce. E ci riesce: un infermiere, attratto da un accendino esotico, non resiste e, tra un'iniezione e l'altra, cede. E uno: il cinese capisce che questa è una buona piazza e decide di insistere. Mentre noi ce ne andiamo, divertiti e un po' sorpresi. Di là c'è un uomo che grida a voce spiegata: “Un termometro!”. Non è un venditore, lui. E' il figlio di un'anziana signora ricoverata da qualche giorno. Si lamenta. “Un solo termometro per dieci ammalati. Ma vi sembra possibile?”. “Non si preoccupi, in fondo può capitare”, gli diciamo poco convinti, solo per calmarlo. Intanto l'infermiere, con o senza termometro, non arriva. Il personale scarseggia, qui come nel resto dell'ospedale. “L'anno scorso ho subito un intervento chirurgico d'estate – continua il signore, che di calmarsi non ne vuole proprio sapere – e di infermieri neanche l'ombra: i camici bianchi erano praticamente un miraggio”. Eh sì, perché come ci racconta un medico, la contrazione del personale nella stagione estiva e in qualunque altro periodo “caldo” festivo, raggiunge livelli tali che i reparti possono anche accorparsi. E questo, ovviamente, significa anche meno posti letto a disposizione degli ammalati. Ma intanto il signore del termometro, ormai “arroventato”, non la smette più. Ha deciso di raccontarci tutto quel che in quel reparto non funziona proprio. I cuscini. Mancano i cuscini. “Gli ammalati se li contendono, fanno a gara per accaparrarseli e chi riesce ad ottenerne due, se li tiene stretti fino a notte fonda”. E non finisce qui. “Qui dentro sono i parenti ad assistere gli ammalati: figli, nuore, nipoti. Ci si mette anche in ferie per garantire una presenza quanto più possibile assidua e regolare. Non è per niente facile. Chi non riesce è costretto ad assumere una badante. A spese proprie, ovviamente”. Ce n'è una proprio nella stanza accanto. Giorno e notte assiste una novantenne che figli non ne ha. Solo una nipote, che ha dovuto affidarla a lei. A un tratto da quella stanza sbuca una ragazza. “C'è un infermiere? E' finita la flebo di mia nonna. Le fa male l'ago. Si dimena e io non so che fare”. L'infermiere, tanto per cambiare non c'è. E noi, pur volendo, quella ragazza non sapremmo proprio come aiutarla. In compenso passa un medico. Le flebo, si sa, non spettano ai dottori. Ma la ragazza, agitata, gli si avvicina: “Mia nonna sta male, la flebo è finita e…”. “Non è compito mio”: un sorriso e via. Quando si dice la cortesia. Ce ne andiamo disgustati. Ma al peggio, si sa, non c'è mai fine. Una storia conclude il nostro viaggio in corsia. C'è un uomo all'uscita. Che racconta a un amico la disavventura vissuta sei mesi fa. “Una peritonite: era una vera e propria peritonite. Era notte e qui, nell'ospedale di Molfetta, dopo una lunga attesa, mi dissero di non preoccuparmi, perché tutto si sarebbe risolto l'indomani”. Quell'uomo, però, decise di andarsene. All'ospedale di Bisceglie. Dove, nottetempo, fu operato. Massimiliano Piscitelli Tiziana Ragno
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