Il treno della memoria 2011 per non dimenticare la follia nazista
Ciò che può rendere sopportabili trenta ore di viaggio in treno, il freddo e la stanchezza è sicuramente la consapevolezza di poter ritornare a casa. E’ questo lo spirito con cui si affronta il “Treno della memoria”, un viaggio organizzato per ripercorrere i luoghi in cui la Shoah ha avuto il suo compimento e il suo epilogo nello sterminio di milioni di ebrei e di tutti coloro che venivano riconosciuti come “diversi”. Un viaggio che quest’anno ha coinvolto oltre 700 ragazzi provenienti da sette regioni italiane, accompagnati dai propri docenti e dallo staff dell’associazione “Terra del Fuoco”. Anche i rappresentanti di cinque scuole molfettesi (Liceo Classico “L. da Vinci”, IPSSCTSP “Don Tonino Bello”, ITCGT “G. Salvemini”, Istituto Magistrale “Vito Fornari”, IPSIAM “Amerigo Vespucci”) hanno preso parte a questa esperienza che si è svolta tra il 12 e il 18 febbraio. Il senso del “Treno della Memoria” è costituire una vera e propria comunità viaggiante e le quasi 30 ore di treno che separano Bari da Cracovia aiutano proprio a creare questa atmosfera, attraverso le numerose attività volte ad immedesimarsi nel contesto della deportazione e dello sterminio, ma anche a socializzare e a costruire le basi di un grande gruppo. E di sicuro fa uno strano eff etto vedere invasa da oltre 700 persone Krakòw Plaszòw, la stazione dove molti treni usati per la deportazione giungevano al capolinea. L’immagine cupa degli ebrei che scendono dal treno a centinaia, dopo un viaggio estenuante, sembra concretizzarsi nuovamente a distanza di anni, questa volta, tuttavia, ritinteggiata dai colori e dall’energia di giovani che, incuranti del freddo penetrante, sono lì per ricordare uno dei più grandi “scempi” dell’umanità e soprattutto per trovare una risposta plausibile alle domande che inevitabilmente aff ollano la mente dinnanzi alle testimonianze dello sterminio. Nell’assemblea pre-partenza, tenutasi presso il teatro Piccinni a Bari, alla presenza del presidente della regione Puglia Nichi Vendola, il responsabile dell’associazione “Terra del Fuoco” Paolo Paticchio ha affermato che, ogniqualvolta entra ad Auschwitz e Birkenau “si sente a casa”. Ai più questa un’aff ermazione potrebbe quasi sembrare “macabra”; in realtà così come è un istinto naturale dell’uomo proteggere la propria casa e i propri aff etti, allo stesso modo ad Auschwitz e Birkenau ci si sente a casa perché si cerca con tutte le proprie forze di difendere la memoria dei milioni di morti, il cui spirito sembra riecheggiare in un silenzio sordo e impenetrabile. Nel momento in cui si supera la scritta “Arbeit macht frei” (Il lavoro rende liberi) che domina dall’alto i cancelli di Auschwitz una strana sensazione si impossessa del visitatore; si entra in un mondo talmente ordinato e razionale da sembrare quasi surreale. Ma la razionalità che si ritrova nei blocchi squadrati e rigidi scompare tragicamente alla vista degli occhiali, delle protesi, delle valige ma soprattutto delle 2 tonnellate di capelli strappati indegnamente ai deportati. E’ a questo punto che ognuno inizia a chiedersi fi n dove si sia spinta la follia dell’uomo, tanto da pensare di usare i capelli, come fi li di lana, per tessere le divise dei tedeschi. E ciò che ancora di più fa raccapricciare, ripensandoci, è che in realtà non si è trattato della follia di uno solo, ma dell’azione pensata, razionalizzata, e millimetricamente organizzata da molti. Tutto ciò è imperdonabile e nessuna giustifi cazione può minimamente attenuare la rabbia silenziosa che affi ora sempre di più man mano che si entra nei blocchi, nelle celle e nelle camere a gas e che farebbe venir voglia di gridare, ma si blocca tra le labbra nel rispetto di quello che può essere considerato come il più grande cimitero dell’umanità. Un posto del genere non può non spingere chi vi entra a rifl ettere sul senso della vita e sulla morte; queste considerazioni diventano sempre più confuse e nebulose quando ci si ritrova nelle camere a gas e davanti ai forni crematori: un caldo stranissimo rispetto alla temperatura esterna avvolge la stanza e un odore sconosciuto, ormai impossessatosi delle pareti, risale prepotente per le narici ed è allora che si ha una lieve ma oscura percezione di cosa sia la morte. All’interno di Auschwitz si dimentica la propria quotidianità e, camminando lentamente per i corridoi che raccolgono le migliaia di fotografi e dei deportati, ci si sente osservati dagli sguardi di uomini e donne il cui essere è stato ridotto ad una serie di cifre e solo allora ci si rende conto della diff erenza abissale tra vivere ed esistere. Durante la visita del campo ognuno dei 700 ragazzi ha “adottato” una delle vittime dello sterminio il cui nome è stato letto durante la commemorazione a Birkenau, proprio perché fi nalmente quell’uomo, quella donna o quel bambino potessero essere degnamente ricordati. Se Auschwitz fa sentire quasi oppressi e soff ocati, Birkenau rivela sin dal suo ingresso cosa signifi ca realmente essere soli. I blocchi sono disposti a decine o centinaia di metri l’uno dall’altro e ciò rende ancora più aggressivi il freddo e il vento che sembra far levare dal terreno le ceneri di coloro che hanno concluso a Birkenau il loro viaggio e la loro vita. Ciò che rende angosciante la visita a Birkenau è il senso di disorientamento; gli alberi che si osservano in lontananza celano i confi ni del campo che pur nella sua enormità appare come una labirintica prigione. Dinnanzi agli orinatoi dove decine e decine di persone contemporaneamente erano costrette a fare i propri bisogni in tempi ristrettissimi, ai giacigli di legno dove uomini, donne e bambini dormivano rannicchiati come “bestie” e alle pareti piene delle fotografi e sottratte dai tedeschi ai prigionieri del campo non si può non essere travolti da un’infi nità di domande e anche il credente più convinto inizia a chiedersi perché il proprio Dio sia rimasto inerte di fronte a una tale ecatombe. Sono pochi coloro che riescono a trovare delle risposte e ad accettarle. Da Auschwitz e Birkenau si esce con mille “perché”, e forse anche un po’ cambiati; si comprende che se quanto osservato è frutto dell’intelletto dell’uomo è possibile che si ripeta e che il progetto razionale ma irragionevole di uno possa coinvolgere e “contagiare” molti altri. Una volta usciti dai campi ci si sente stranamente rigenerati, con la voglia e il dovere di testimoniare e soprattutto di ricordare, perché è proprio la memoria a forgiare il senso critico dell’individuo e a renderlo responsabile di fronte al proprio futuro.
Autore: Gabriella M. A. Abbattista