La vignetta di Michelangelo Manente
MOLFETTA - “Quindici” accoglie l’invito di alcuni lettori della rivista che ogni mese è in edicola a Molfetta, a pubblicare sul web, dopo qualche mese, alcuni degli articoli apparsi sul cartaceo, per renderli fruibili a un numero maggiore di gente, soprattutto quando i loro contenuti consentono spunti di riflessione utili alla crescita complessiva.
Lo abbiamo fatto anche in passato, lo stiamo facendo anche ora. Riportiamo oggi l’editoriale (opportunamente modificato in qualche passaggio temporale, per renderlo più attuale) del direttore Felice de Sanctis pubblicato nel numero del mese di luglio 2022.
Il potere logora chi non ce l’ha
di Felice de Sanctis
Che il potere logori chi non ce l’ha, lo ha detto Giulio Andreotti, uno che se ne intendeva.
E Pasquale Drago, detto Lillino, candidato sindaco di un’area che si richiama al centrosinistra, è stato logorato prima del tempo e ha gettato la spugna subito dopo la sconfitta al ballottaggio con Tommaso Minervini.
Alla fine, la notizia di queste elezioni comunali, è diventata l’abbandono di Drago, rispetto alla vittoria di Minervini. Ma quello che ha lasciato sconcertati tanti suoi elettori è stata la lettera di dimissioni, inviata, come abbiamo già scritto, a pochi intimi, cioè ai candidati della sua coalizione e non ai cittadini che lo hanno votato e che sono stati ignorati.
La candidatura di Drago non ci aveva convinti (non sul piano personale, ma su quello della validità della scelta) fin dall’inizio e non lo avevamo nascosto. Ma non aveva convinto tanti elettori del centrosinistra. Ed è stato il trionfo delle ipocrisie, quelle ipocrisie che tante volte hanno danneggiato la sinistra, riuscendo a trasformare anche situazioni di potenziale vittoria, in sconfitte certe.
E’ stato così anche questa volta: è mancata la fede, è mancato l’entusiasmo per un candidato imposto da altri, che, forse, non è riuscito a coinvolgere più di tanto i cittadini molfettesi e che ha fatto aumentare il numero degli astensionisti. E sì, perché almeno questa volta chi ha scelto il mare alle urne, non appartiene all’elettorato di destra o di una certa destra ciambottista che si è ritrovata protagonista nella scorsa consigliatura accanto a Minervini, ma l’elettore di sinistra che non vota per un interesse, per avere il posto o i 50 o 100 euro che anche questa volta sarebbero stati elargiti in base al numero di voti che convogliavano verso questo o quel candidato, questa o quella lista. L’elettore che sogna veramente una città diversa e non un generico sogno. Un candidato non si costruisce all’ultimo momento, non basta essere una persona degnissima come lo è l’ex magistrato.
Altro handicap è stato quello di essere assolutamente sconosciuto al grande pubblico. Non ci convinceva il fatto di essere un ex giudice, perché finora molti dei magistrati, tranne qualche lodevole eccezione, che si sono cimentati in politica, non hanno dato buoni risultati. Sarà per la deformazione professionale della mentalità inquisitoria, mentre la politica richiede mediazione, sarà per il fatto di non avere una forma mentis politica (quella con la P maiuscola), sarà per l’abitudine ad agire da soli senza confrontarsi con altri, e così via. Insomma, una candidatura divisiva e con condivisiva. A sfavore di Drago, poi, giocavano anche l’età e le condizioni di salute, delle quali si è reso conto dopo. Insomma, c’erano dei limiti oggettivi. Del resto una candidatura di sinistra nasce da un percorso condiviso (e, per carità, non commettiamo l’errore di alcuni “ingenui” di aver paragonato questa candidatura a quella di Guglielmo Minervini che nacque da un “Percorso” condiviso).
C’è chi ha sperato in un miracolo come quello che portò all’elezione di Paola Natalicchio nel 2013, ma le situazioni erano completamente diverse, candidato giovane, politicamente attrezzato (militante di partito e giornalista), simpatia innata, capacità efficace di comunicazione, leadership spontanea e attrattiva, ecc. E quindi con Drago non c’è stato il voto di opinione, che spinse, all’epoca, gli indecisi e gli astenuti, a recarsi alle urne.
Si è puntato sull’unica chance del candidato, quella della legalità, come se Molfetta avesse bisogno di uno sceriffo o di un magistrato che mandasse tutti in galera e ripristinasse una situazione sostenibile. Del resto lo stesso candidato dimissionario ha sostenuto la necessità, in caso di elezione, di dotarsi di una scorta personale.
Era questo il sogno di una Molfetta diversa? Oppure la condivisione di valori in cui credere e una persona in cui riconoscersi o riconoscere come leader (un ruolo che lo stesso Drago ha riconosciuto di non possedere)?
Un magistrato è abituato a decidere della vita degli altri, a commettere errori dei quali non è chiamato a rispondere, un potere senza verifica, situazione diversa da quella del sindaco, chiamato ogni giorno a rispondere delle sue azioni dall’opposizione e da una stampa critica e non asservita al potere.
Nella lettera inviata ai pochi intimi, Drago dimostra come la sua candidatura sia stata un errore a conferma delle perplessità di tanti che lo ripetevano sottovoce: lo sforzo per tentare di portarvi alla vittoria; il disprezzo verso coloro che non lo hanno votato e che meritano di tenersi Molfetta così com’è ora; non avrei accettato un ruolo subalterno di consigliere di un’opposizione divisa fra tre distinte coalizioni (e giù critiche a Rifondazione considerata stampella del potere); come consigliere semplice non mi sarebbe stato possibile ottenere la scorta, col rischio di condurre una battaglia senza tutela e priva di prospettive e che avrebbe comportato sacrifici (anche economici), impegno e rischio completamente inutili; non sono disponibile per una battaglia contro i mulini a vento; Molfetta ha bisogno solo di un intervento repressivo della Magistratura (ecco che torna l’inquisitore).
E ancora: non ho il carisma, né il temperamento, né soprattutto la necessaria formazione politica per essere un leader; la nostra coalizione elettorale è stata formata mettendo insieme istanze diverse tra loro e unificate dall’unico fine di “abbattere il tiranno”.
Ce n’è abbastanza, per confermare la scelta sbagliata di questa candidatura, ma anche l’opportunità dello stesso candidato di accettarla. Conosceva i suoi limiti o li ha scoperti dopo? Forse si è illuso di essere il cavaliere bianco della politica che sconfigge il tiranno? Ancora una volta siamo stati facili profeti e ci è toccato lo scomodo ruolo di Cassandra (che non ci piace), non per poteri divinatori o soprannaturali, ma semplicemente per esperienza e capacità di analisi delle situazioni, ferri del mestiere di un vecchio giornalista.
In conclusione, occorre attribuire al candidato Drago, persona degnissima, una grossa dose di ingenuità politica, ma anche riconoscere la capacità di ammettere una fragilità umana che ne fanno un onest’uomo una persona che riconosce, anche se tardivamente, i propri limiti, sconfitto dalla politica, ma non dalla vita, per una scelta onesta immediata e non tardiva. Ha sventolato bandiera bianca e si è arreso, forse avrebbe fatto meglio a motivare la sua decisone solo con i motivi di salute.
La coalizione di Drago, però, paga il prezzo non solo della scelta sbagliata del candidato, ma anche dell’assembramento di personaggi voltagabbana (ex militanti nel ciambotto minerviniano) e lontani dal “sentire” di sinistra che non deve essere una élite o un club radical chic, né tantomeno un gruppo esclusivo, unico depositario della verità, ma una condivisione di obiettivi rispondenti ai bisogni reali dei cittadini. Un’alternativa tutta da costruire da domani, non due mesi prima delle prossime elezioni amministrative.
Del candidato vincente Tommaso Minervini si può dire che il suo successo poco personale e più dovuto al massiccio coinvolgimento di uomini e mezzi in liste civiche che non hanno nulla di politico. Tommaso sempre più andreottiano, dopo tre mandati di sindaco non sembra essere stanco, né tantomeno logorato. Ha avuto meno voti delle sue liste e quindi non è la sua vittoria, ma quella dei personaggi e delle lobby che rappresentano, dei signori dei voti e degli interessi più o meno legittimi, sicuramente personali e non collettivi.
Ma, paradossalmente, Minervini ne esce più forte, perché i fatti hanno dimostrato che a lui non c’è alternativa, se non il commissario che, forse, in una situazione degradata come quella di Molfetta, non sarebbe il male peggiore, anzi: permetterebbe una riorganizzazione del consenso attorno a un progetto condiviso e non viziato dalla gestione del potere e degli interessi particolari.
Parafrasando lo slogan elettorale del sindaco eletto, oggi Minervini è Molfetta, ma Molfetta non può essere Minervini.
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Autore: Felice de Sanctis