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Il ponte di Manhattan Omaggi o a Gaetano Salvemini
15 marzo 2007

Nei primi anni del 1900, l'Italia era governata da Giovanni Giolitti, primo ministro e leader del partito liberale, che nel Parlamento italiano aveva la maggioranza dei seggi. Il precedente ministero Crispi, alla fine dell'800, cadde non solo per le sconfitte militari in Nord Africa, ma anche perché la borghesia industriale e mercantile del Nord vedeva nelle guerre coloniali un carico intollerabile per l'economia e le finanze italiane. Solo siderurgia e cantieristica erano avvantaggiate dalle commesse militari. Intanto nella nazione, grazie alle nascenti organizzazioni socialiste e cattoliche, cresceva la coscienza sociale della povera gente il cui malcontento era alimentato dall'inasprirsi del carovita. Per i cattivi raccolti del 1897 (il grano prodotto ammontava alla metà di quello dell'anno precedente) il governo prendeva misure sbagliate e interessate, come il rialzo del prezzo del pane. Tumulti esplosero in varie zone d'Italia, culminando nelle giornate di Milano dove il generale Bava Beccaris, su ordine del governo, e del re Umberto I, fece sparare, dai militari a cavallo, sulla folla dei manifestanti che davanti alla prefettura chiedevano a gran voce la riduzione del prezzo del pane (80 morti; 450 feriti). Era il maggio 1898. Il generale fu poi ricevuto a Roma, in pompa magna, dal Re che gli appuntò sulla divisa una medaglia d'oro “per aver riportato l'ordine a Milano”. Furono arrestate 2.000 persone ammucchiate nel castello in modo tale che non potevano stendersi per terra, durante la notte. Soppresse dozzine di giornali, sciolte tutte le associazioni operaie di qualunque genere. Il 29 luglio 1900 l'anarchico Gaetano Brescia, a Monza, sparava ed uccideva il re Umberto I. Immediatamente arrestato esclamò: “Ho voluto vendicare i morti di Milano”. Re Vittorio Emanuele III (che regnò dal 1900 al 1946) decideva di adottare un atteggiamento più prudente e rispettoso delle prerogative parlamentari e delle pur scarse garanzie statutarie. Il nuovo Primo Ministro Giovanni Giolitti dichiarava alla Camera (4 febbraio 1901): “Il moto ascendente delle classi lavoratrici si accelera ogni giorno di più … in tutti i paesi civili … Nessuno si può illudere di poter impedire che le classi popolari conquistino la loro parte di influenza economica e politica …” Giolitti si dichiarava neutrale di fronte alla lotta dei lavoratori , mentre sino ad allora i precedenti governi avevano messo l'esercito e le forze dell'ordine al servizio dei proprietari. Tuttavia il governo Giolitti manteneva alti i dazi sul grano come corrispettivo della protezione concessa all'industria del Nord, dove favoriva la solidarietà tra nuova industria e proletariato urbano; mentre nel Meridione comprimeva le rivendicazioni delle masse contadine, anche ricorrendo alla repressione più brutale (con l'aiuto della malavita locale), al manganello (non furono i fascisti ad usarlo per primi) per non perdere l'appoggio dei latifondisti. Perciò lo storico Gaetano Salvemini (Molfetta 1873 – Sorrento 1957) scriveva e parlava contro il governo giolittiano a favore delle masse contadine brutalizzate da secoli di sfruttamento baronale e dalla politica dei governi nazionali. Una stanza-tugurio, nelle campagne meridionali dove si accalcavano genitori e figli, asino e pecora eventuali (la figliolanza numerosa – nonostante l'alta mortalità tra i neonati nelle classi meno abbienti – era vista come necessaria perché braccia lavoro) era tassata come una casa per civile abitazione, nelle città. Lo squilibrio tra Nord e Sud nei primi dieci anni del '900 si accentuava . Il Mezzogiorno forniva manodopera e mercato di assorbimento e vedeva mortificate dal protezionismo le colture specializzate (vite, olio, frutta, ortaggi). Moltissimi allora emigrarono; negli anni 1900 – 1913 oltre nove milioni di italiani varcarono l'oceano; la maggioranza meridionali. Era questa in sintesi la situazione storico – sociale in cui maturarono le vicende che andiamo a raccontare. Era in corso l'anno 1913; si stavano preparando le elezioni. Molfetta, Giovinazzo, Bitonto erano tra le cittadine interessate. I candidati locali erano: per il partito liberale di Giolitti, Pansini; per l'opposizione, un altro molfettese, Gaetano Salvemini. La campagna elettorale, fu alquanto violenta e combattuta. I pansiniani erano appoggiati fattivamente dalla malavita locale, dietro la quale non era difficile avvertire la protezione dei latifondisti. Vinse Pansini. In una famiglia di piccoli proprietari terrieri di Giovinazzo, sette figli, due maschi e cinque femmine, tutti dediti con i genitori alle fatiche dei campi, si abbattè la vendetta politica dei vincitori ormai euforici e senza più remore e pudori. Il capofamiglia, che si era schierato contro Pansini, (quanti comizi in piazza a spiegare ai braccianti i loro doveri e diritti nonché l'onestà politica di Gaetano Salvemini!), avvertito in tempo, dovette nascondersi nel frantoio di un amico, sotto sacchi pieni di olive sui quali fu buttata gran quantità di sansa, in modo tale da coprire i sacchi medesimi; fu abilmente lasciato un sottile sfiatatoio perché il malcapitato potesse respirare. Il frantoio fu “visitato” da uomini armati di manganelli ricavati da nodosi rami d'albero; essi bestemmiavano e giuravano di avere diritto di dare una “lezione” a Vincenzo Montaruli! Costui passò per un certo tempo in altri nascondigli sino a quando i bollenti spiriti delle frange dei vincitori non si placarono. Ma nel frattempo uno di costoro, non si sa a quale prezzo, aveva testimoniato che il primogenito della famiglia in questione avesse pronunciato in pubblico questa frase: “I fessi fanno il servizio militare”. Pasquale aveva solo 18 anni, non si era mai occupato di politica, lavorava sodo nei campi di proprietà del padre, dall'alba al tramonto. Non avrebbe mai potuto albergare nella sua mente una tale pericolosa convinzione né tanto meno pronunciarla in pubblico, tanto era forte in lui il senso dell'obbedienza, della sottomissione al volere dei genitori e del dovere. La famiglia fu avvertita in tempo; il giovane avrebbe subito un processo e rischiava grosso, molto grosso! Il padre, con l'aiuto di alcuni amici esperti di legge, decise che il ragazzo doveva partire, doveva emigrare, sparire immediatamente (scattava l'arresto!) sino a quando la situazione politica non fosse cambiata. In una giornata fu tutto preparato e deciso. A mezzanotte Pasquale, (si pensi con quale stato d'animo!) solo, salì sul treno per Napoli, dove una nave lo accolse e lo trasferì a New York. Possiamo solo immaginare in parte la desolazione del suo cuore, le paure di un ragazzo inesperto del mondo, che non conosceva la lingua; il dolore cocente della madre e del padre che vedevano un figlio, il primogenito, punito per colpe inesistenti se non nella mente prava di chi voleva lasciare un segno tangente all'avversario politico, visto come un pericoloso nemico. Pasquale, grazie alla solidarietà di qualche compaesano, si rassegnava alle fatiche più dure, a sacrifici impensabili. Il suo primo lavoro fu quello del water-boy ossia il ragazzo dell'acqua; infatti egli portava un secchio pieno di acqua potabile munito di cuppino per far dissetare gli operai che lavoravano sulle strutture in ferro del costruendo ponte di Manhattan. Educato dai genitori al dovere, alla fatica senza orario, ai sacrifici, a poco a poco si adattava e con ferrea volontà, migliorando le proprie capacità lavorative e imparando l'idioma necessario per comunicare, passava da un'occupazione all'altra. Intanto mamma Giovanna s'era ammalata di cuore; né l'amore del consorte né l'affetto per le figlie ubbidienti e virtuose, né le sollecitudini dell'altro figlio maschio, Luigi, potevano lenire nel profondo del suo cuore il dolore per il suo Pasquale, da cui tanto mare la separava. Prima di coricarsi, dopo una giornata di strenuo lavoro, oltre alle preghiere che era solita recitare con tutta la famiglia a sera, mentre tutti erano a letto, verso le ventitré, mamma Giovanna iniziava un altro rosario in attesa che passasse il treno che a mezzanotte, mesi ed ormai anni prima, aveva portato il figlio in terra straniera, lontano, troppo e ingiustamente lontano dalle sue braccia. Sollevava ogni tanto la corona i cui grani faceva rotolare tra le dita, mentre il marito Vincenzo l'attendeva nel letto matrimoniale e scherzando (per assicurarle compagnia, con la voce) chiedeva in vernacolo a che punto fosse “u lamparidde”. Solo quando passava il treno di mezzanotte … terminate le preghiere, mamma Giovanna si rassegnava a coricarsi. Passarono dieci anni ed ella morì. Intanto quel figlio adorato aveva fatto strada, a New York. Inviava denaro alla famiglia con il quale papà Vincenzo comprava altri terreni. Quando l'autrice di questo racconto capitò a New York per un viaggio di piacere, guardando il ponte di Manhattan si ricordò le raccomandazioni della madre, Maria, sorella di Pasquale: “Davanti a quel ponte ricordati che tuo zio Pasquale guidava gli operai specializzati per un impianto così importante e i lavori più pericolosi li compiva egli, in persona, sia per dovere, sia per l'eccellente abilità raggiunta, sia perché non temeva alcun pericolo. Ormai era forgiato, forte e coraggioso, era rispettato, stimato e temuto. Era un esempio per gli altri connazionali!” E la sottoscritta osservò a lungo quel ponte, con orgoglio; lei borghese, professionista, che non aveva conosciuto le sofferenze e le umiliazioni dell'emigrazione grazie anche a zio Pasquale ed a zio Luigi (il fratello che lo aveva raggiunto a New York). Con il denaro inviato in famiglia dai due fratelli erano stati comprati terreni e abitazioni anche perché le cinque sorelle, le figlie di Vincenzo Montaruli, avessero una dote degna per sposarsi adeguatamente. Sentì un'ondata di orgoglio salirle dentro; gli occhi si inumidirono ed al consorte che l'osservava, sorpreso da tanta emozione, esclamò: “Su quel ponte c'è tanto sudore del lavoro italiano; i miei zii materni hanno contribuito a costruirlo!” La maggioranza degli Italiani sono stati onesti, caparbi, laboriosi e sono diventati degni cittadini di questa grande nazione americana che unica annovera tra gli articoli della sua Costituzione “il diritto alla felicità”. Una nazione altruista e liberale, quella alla quale chiese asilo politico Gaetano Salvemini, sfuggendo alle grinfie della dittatura fascista. Il professor Salvemini nelle sue lezioni di Storia ricordava agli alunni statunitensi quegli europei che nel XVI secolo fuggirono dalle persecuzioni, dalle torture e dai roghi di un'Europa dilaniata da guerre di religione, (dietro la quale c'erano i soliti immondi interessi di potere politico ed economico). Essi - proseguiva il professore - sbarcando sulle nuove terre, giurarono di creare una civiltà diversa, basata sulla tolleranza e sulla convivialità di differenti fedi politiche e religiose; per dignità, bandendo il truce gusto della sopraffazione. *Questo racconto è ispirato a fatti realmente accaduti
Autore: Gianna Sallustio
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