Il molino Cappelluti Valentini Fraggiacomo
Nel sottosuolo del palazzo municipale, oggi Sala dei Templari, fino alla metà del XIX sec. circa c’erano i centimoli o molini comunali mossi da quadrupedi, che provvedevano a sfarinare il grano per l’alimentazione della cittadinanza. Con l’ausilio di forni comunali e forni privati si cuoceva il pane preparato dalle donne di casa o dai fornai. A questi, dall’inizio del XIX sec, si affiancarono diversi maccaronari che, con semplici macchine trafilatrici a mano, provvedevano alla fabbricazione della pasta. Cessata la privativa della macinazione dei grani da parte dell’Università, detta lo jus moliendi, nel 1800 la macinazione fu resa libera dietro il pagamento del relativo dazio. Nel 1839 a Molfetta Giuseppe Cappelluti e Salvatore Valentini di Nicola costituirono una società per sfarinare grani; quest’ultimo il 5 marzo del 1839 acquistò in società dall’opificio meccanico di Lorenzo Zino- Francesco Henry & C. di Napoli 2 macchine a vapore e relativi macchinari per l’uso di sfarinare cereali; 5/6 parti erano del Cappelluti e 1/6 del Valentini. Il Cappelluti si riservò il rimborso anticipato dei 5/6 del capitale versato pari a 1.000 ducati anche in caso di perdite. Il molino con le macchine fu installato nell’osteria di Angelo Fraggiacomo messa di fronte alla chiesa di S. Domenico. Morto il Cappelluti nel 1840, sua figlia Angela Cappelluti nel 1841 per mancanza del guadagno chiese al Valentini il rimborso del capitale. A seguito del diniego del Valentini la Cappelluti lo denunziò come inadempiente presso il Tribunale del Commercio di Napoli. Nel frattempo Angelo Fraggiacomo entrò in società col Valentini avendo acquistato parte di una macchina. Le due macchine avevano la forza motrice di 16 Hp. I molini mossi dagli animali quadrupedi erano detti a sangue o nostrali. La messa in esercizio di questo mulino meccanico nel 1843 mise in crisi i detti molini e, a detta di tale Modugno Corrado, fu Giuseppe proprietario di 2 macchine nostrali che ribassò il costo del macinio a 18 grana il tomolo per essere competitivo sul mercato a differenza del costo di 16 grana di quello meccanico. Non è noto l’epoca del passaggio della proprietà del molino alla ditta Zeno-Henry & C. fornitrice dei macchinari. Nell’elenco degli utenti residenti a Molfetta soggetti al controllo dei pesi e delle misure, relativo al 1844, figura la ditta Zeno & Compagni. All’una di notte della sera del 24 ottobre 1846 scoppiò la caldaia del molino, facendo 8 vittime e 2 feriti; volarono pietre, mattoni, tufi, tubi di ferro e pezzi di caldaia a più di 1.000 palmi di distanza. Dei morti ne abbiamo rintracciati quattro: Mauro Minervini, facchino di 52 anni, abitava alla strada S. Orsola; Michele Minervini, facchino di 20 anni, figlio del precedente e di Raffaela Coppolecchia; Angelo Albanese, facchino di 13 anni; Angelo Schioppa marito di Nunzia esposta di 39 anni, nativo di Castiglione d’Abbruzzo, centimolare abitava alla strada S. Domenico. Tra i danni rilevati figurarono le lesioni al muro di ponente della chiesa di S. Domenico. In seguito, per stabilizzare la facciata di ponente della chiesa, in seguito si costruirono gli archi di rinforzo che si notano ancora oggi. Le monache benedettine dimoranti nell’ex convento dei domenicani, per il pericolo scampato dall’esplosione della caldaia, il 24 ottobre di ogni anno facevano celebrare per devozione una messa all’Arcangelo Raffaele. Il disastro dello scoppio della caldaia fu la causa di un acceso dibattito in seno al Consiglio Decurionale del 10 novembre 1846 fra il decurione Francesco Antonio Fornari, che copriva anche la carica di amministratore delle benedettine perorava la causa del pericolo della permanenza del molino nelle vicinanze della città in un luogo anche molto frequentato e l’altro decurione, Vitangelo Salvemini salariato della società Zeno-Henry & C., che con altri argomenti difendeva la permanenza sul sito attuale, mettendo in risalto la venuta a Molfetta del sig. Henry con 4 meccanici a riparare la caldaia e al montaggio di una terza macchina per aumentare il macinio del grano; metteva in risalto che con l’avvento del molino a vapore era diminuito il costo della macinazione tutto a vantaggio della popolazione. Dopo la disgrazia il Sindaco di Molfetta Angelo Fraggiacomo per non far mancare la farina invitò il Salvemini e l’avv. Minervini rappresentante della ditta di recarsi a Bari per trovare un altro molino che rifornisse la città. Ribadì ancora il Salvemini come al montaggio di una terza macchina l’Intendente della Provincia di Terra di Bari inviò a Molfetta l’architetto Ciopi per un controllo. Alla fine delle argomentazioni, il consigliere Giuseppe Scippa propose una mozione da inviare all’Intendente a Bari affinché mandasse due ingegneri a Molfetta a relazionare sull’argomento. La mozione fu approvata con 12 voti contro 9. Il 10 dicembre 1846 l’Intendente notificò al Sindaco l’invio degli ing. Giuliani e Iamai per redimere la questione. Non conosciamo l’esito della perizia dei due ing.; sappiamo solo che nel 1851 le monache benedettine dimoranti nel Convento di S. Domenico si opposero a far rimettere in funzione il molino. La società di Zeno & Henry fu costituita nel 1834 a Napoli in località Granili per la costruzione di svariati apparati meccanici. Con l’avvento della ferrovia, caldeggiata da Ferdinando II Re del Regno delle Due Sicilie, iniziò a fornire il materiale rotabile come locomotive, vagoni e altri congegni per la circolazione ferroviaria. Con l’incremento di altre linee ferroviarie nel Regno di Napoli, Ferdinando II fece costruire il Reale Opificio per la costruzione di locomotive a Pietrarsa. Con l’avvento del Regno d’Italia, nel 1863 le due officine furono accorpate. Dopo diverse traversie le officine cessarono l’attività nel 1975. Gli impianti trasformati poi a Museo Ferroviario. © Riproduzione riservata