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Il Lavoro ai tempi del Jobs Act: a Comitando oggi si parla di precarietà e diritti a Molfetta con il prof. Giso Amendola e Giacomo Pisani redattore di “Quindici”
04 novembre 2014

MOLFETTA - Il 25 ottobre, mentre oltre un milione di persone, lavoratori e pensionati, giovani precari e disoccupati, invadevano le strade di Roma per protestare contro il Jobs Act, la cosiddetta “riforma del lavoro” imposta dal governo, a Firenze, dal palco della Leopolda, il presidente del Consiglio Matteo Renzi urlava: «IL POSTO FISSO NON C'È PIÙ!!!» e uno dei suoi maggiori finanziatori, il finanziere rockstar Davide Serra, rincarava la dose: «Lo sciopero mica è un diritto! È un costo! Limitiamolo almeno per i dipendenti pubblici».

E intanto c’è chi si chiede se abbia ancora senso l’art. 1 della Costituzione: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» e argomenta che il Lavoro non esiste più, che esistono “i lavori”, senza diritti e senza protezioni garantite. Il lavoratore deve essere disposto a cambiare mestiere continuamente, ad affrontare anche lunghi periodi di inattività e ad arrangiarsi, perché il capitale mette a valore forme di relazione, capacità cognitive ecc. È l’intera dimensione sociale della vita della persona che è messa a valore, ed è quindi scardinato il rapporto classico che legava il tempo di lavoro alla produzione. Ne deriva una fluidità ammorbante, che lega i soggetti al ricatto del lavoro sottopagato o addirittura volontario. Oggi una generazione altamente titolata, creativa, capace di inventarsi in ruoli diversi a seconda delle circostanze, vive in una dimensione precaria, deprivata della dimensione futura, quella dei progetti a lungo termine, anche i più elementari come acquisire autonomia, farsi una famiglia o mettere al mondo dei figli.

Il lavoro flessibile produce occupazione: è la promessa miracolosa che ha legittimato il progressivo smantellamento delle tutele del lavoro. La realtà è diversa, molto diversa. La flessibilità produce profonde disuguaglianze e ha costi personali e sociali che non si possono sottacere. Costa prospettive di carriera professionale. Costa percorsi formativi iniziati e interrotti. Costa rapporti familiari instabili. Costa fatica fisica e nervosa per il continuo riadattamento a un nuovo contesto. Ma ancor più costa alla persona, per la sensazione rinnovata ogni giorno che la propria esistenza dipenda da altri. Costa la certezza amara che non è possibile guidare la propria vita come si vorrebbe, o come si pensa d’aver diritto di fare.

Nel Jobs Act non c'è traccia di quello di cui le giovani generazioni hanno davvero bisogno: la riduzione delle forme contrattuali precarie, un reddito minimo garantito che assicuri un'esistenza dignitosa e libera dai ricatti, l'estensione universale a tutti e a tutte degli strumenti di welfare (malattia, casa, maternità e paternità), incremento dei finanziamenti per gli ammortizzatori sociali, investimenti veri per creare nuova e buona occupazione... Il Jobs Act, da un lato, attacca i diritti di chi ha un lavoro a tempo indeterminato, togliendo qualsiasi protezione dai licenziamenti ingiustificati, e allo stesso tempo non garantisce assolutamente nulla di nuovo per i giovani precari e senza lavoro. 

Servono idee e proposte davvero nuove per una campagna da portare avanti in tutte le realtà, a livello nazionale ed europeo, per contrastare le politiche del governo, per organizzare l'opposizione al Jobs Act e alla precarietà espansiva e per rivendicare diritti e tutele, per conquistare una vita degna.

Continuando il percorso di riflessione e mobilitazione intrapreso il 14 ottobre con la CGIL, di tutto questo si parla questa sera alle ore 19.30 nella sede di Comitando, in via De Nicola 12, con Giso Amendola, professore ordinario di Filosofia del diritto all’Università di Salerno, Giacomo Pisani, dottorando di ricerca in Sociologia del diritto presso l’Università di Torino e redattore di “Quindici”. Modererà il dibattito Manuel Minervini, responsabile del Gruppo di lavoro Jobs Act di Comitando. Introdurranno la serata alcuni filmati e un reading di brani tratti da "Vite rinviate. Lo scandalo del lavoro precario" di Luciano Gallino. La cittadinanza è invitata.

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Chiunque affermi di avere la risposta per ogni problema, in realtà non sa risponderne a nessuno: le soluzioni totali, lungi dal migliorare le cose, le aggravano. La natura del lavoro sta cambiando. Una carriera lavorativa unica che copra l'intera esistenza della persona sarà l'eccezione e non la regola. Nell'arco della propria vita le persone avranno dei periodi di lavoro e dei periodi di disoccupazione, attività a tempo pieno e attività part-time, periodi di addestramento e di riaddestramento. In qualche misura, con grande disappunto di molti uomini, diventerà regola generale l'esperienza delle donne. Questi cambiamenti hanno molte implicazioni, per esempio sul terreno del rapporto fra impiego e diritti sociali, i quali non dovranno essere legati a lavori particolari. Comunque tutta questa trasformazione può funzionare solo se tutti, fin da giovani, hanno fatto esperienza del mercato del lavoro. Il nuovo mondo del lavoro impone che i giovani vengano posti nella condizione di vivere un'esperienza di addestramento professionale strettamente legata a occupazioni reali destinata a concludersi con un periodo di impiego regolare. L'istruzione non risolve tutti i problemi. Le persone comprensibilmente si chiedono che sbocchi abbia. Ma un'istruzione legata a un impiego nell'età critica che va dai9 16 ai 19 anni circa assicura alla persona una base di esperienza e di motivazione che può sostenerla nel corso di tutta una vita di cambiamenti. Viceversa, in assenza delle necessarie opportunità di rendersi conto dell'utilità dell'istruzione e dei vincoli del mercato del lavoro, molto, se non tutto, è perduto. Le persone veramente svantaggiate, il sottoproletariato, presentano un problema quasi insuperabile. Tutto quello che si può fare per recuperare gli esclusi, si deve farlo. Ma il compito più critico è un altro: consiste nel tagliare le radici da cui potrebbe nascere il sottoproletariato di domani. Anche ammesso che non siamo in grado di porre rimedio alla situazione di coloro che sono già esclusi dalla società, dobbiamo fare quanto basta per impedire che un'altra generazione faccia la stessa triste esperienza. Quando la fiducia comincia a incrinarsi, ben presto anche la libertà arretra su una posizione meno articolata, quella caratterizzata dalla guerra di tutti contro tutti. Chi è che prospera in uno stato di anarchia? I signori della guerra, gli impostori, gli speculatori, i giullari (se hanno la fortuna di trovare un protettore), non certo i cittadini; i cittadini anzi, non esistono più. Tutti coloro che non prosperano diventano vittime della nuova situazione. Gli individui non amano una prospettiva simile, specialmente se un tempo sono stati cittadini; se la libertà sfocia nell'anomia, incominciano a dubitare della saggezza dei padri delle loro costituzioni e vanno alla ricerca di una via d'uscita, di un'autorità. La sensazione che si va diffondendo è quella che stia venendo meno ogni certezza: di qui senso di anomia, tramonto di ogni regola, e profonda insicurezza.
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