Francesco Peruzzi, figlio del musicista Giuseppe, in “Maestri Compositori e Musicisti molfettesi” (1930) non dubita d'un “genio musicale” di Molfetta, che il prefatore, Vincenzo Roppo, definisce “non solo ricetto ed animatrice di opere d'ingegno e di lavoro, ma ben anche terra squisitamente musicale”. D'essa, precisa, solo Peruzzi, “uno dei pochi artisti superstiti, - e forse l'ultimo”, fin da ragazzo “perfetto suonatore” di violoncello, e insieme critico valente, poteva “competentemente riassumere e tramandare ai posteri la storia musicale”. Francesco, nato nel 1863, coltivò la musica anche durante gli studi classici a Molfetta, giuridici e musicali a Napoli nella Regia Università e nel Conservatorio di San Pietro a Maiella; donde tornò nel 91 avvocato e maestro di contrappunto ed armonia. Aldo Fontana, assertore pur egli d'un “Genio musicale molfettese”, in una “Storia del teatro” del 1966 narra il rapporto di Peruzzi con iu teatri locali. Chiamato al “Teatro Comunale”, diresse la stagione invernale e l'orchestra in cinque opere liriche: una carriera luminosa fino al 98, quando il Comunale cessò l'attività ed al maestro furono donati una bacchetta dalle estremità d'oro ed un rametto d'alloro, sulle cui quattro foglie d'oro erano incisi i titoli dei quattro celebri melodrammi della stagione. L'attività del Peruzzi proseguì nel “Politeama” (1909), che prese nome dal suo costruttore, G,B.Attanasio, commerciante di legname, come l'Allegretta, che nello stesso atrio del convento di S. Teresa aveva elevato un teatrino, durato mesi, per spettacoli circensi e riviste. Come per il “Comunale”, così per l' “Attanasio” Peruzzi cercò artisti affermati: a Milano “scritturò” i solisti, al Petruzzelli le “masse corali ed orchestrali”. La storia teatrale, iniziata nel Seminario dal vescovo Orlando (1754-74), continuò con Felice Fiore, sindaco-poeta morto troppo giovane, che nel 1810 per primo adibì a teatro una sala della casa comunale, trasformata in seguito, fino a farne il “Comunale”. Il Politeama fu demolito nel 1915 per bisogno di legname nella Grande Guerra ed ebbe continuatori nel “Politeama sociale”, sorto già nel 1913 e dopo buone stagioni liriche arso per accidente nel 1919, e nel “Teatro La Fenice” (il mitico uccello rinasceva dalle ceneri): costruito in 40 giorni nel 1919, nel 1957 cedette il luogo al primo “ecomostro” violatore di storia. Peruzzi biasima la soppressione del Comunale, decisa dalla giunta Picca (1902) “sotto una malintesa forma di democrazia”: “[…] la politica sacrificava insieme al preteso Tempio di inutile lusso”, per la “casta signorile”, “anche quello di arte, di cultura, di educazione e di vivere civile!” Ogni epoca, si sa, ha i suoi “giacobini”, che per una pretesa verità assoluta abrogano le culture precedenti e ne abradono le eredità storiche e monumentali: avvenne anche quando i cristiani distrussero mirabili architetture classiche, per farne chiese. Nel Fenice Peruzzi rappresentò il suo “Conte Marchi” e ne diresse l'orchestra e s'esibirono Zacconi, Petrolini, Musco, Ninchi, Gramatica. Roppo sulla scorta di Peruzzi certifica il naturale genio musicale di Molfetta, risalendo al 1500: “si affaccia nel campo della musica con Giusquino Salepico […] culminando a Luigi Capotorti (1767-1842), […] il maggior esponente di Molfetta musicale, anello di congiunzione tra i due secoli XVII e XIX e la cui attività musicale ebbe ad affermarsi in Napoli e nelle Puglie nel 1800”. L' “Orfeo della Puglia”, Salepico, inventore d'un liuto a 22 corde, con esso girò per le corti d'Europa, fermandosi per cospicua pensione presso l'imperatore Carlo V. A quel 1500 appartengono Giovan Francesco Tottola, frequentatore di corti, detto “Bondi della Peucezia”; Matteo Rufoli, ammirato autore di madrigali; Margherita Falconi, “gentildonna avvenente […] cantante e suonatrice abilissima”, esaltata come “Calliope di Puglia”. Roppo spiega con il nativo “genio della musica” il fatto che “tra continui moti politici, turbolenze e sconvolgimenti cittadini - il sacco di Molfetta nel 1529 - si siano prodotti […] tanti ingegni musicali, Dopo il 1600, muto per incuria di conservazione, pensa Peruzzi, piuttosto che per silenzio del genio, anche a Molfetta esplode il 1700 europeo: tra alquanti preti musicisti voglio citare Vatantonio Cozzoli, per aver egli musicato i drammi “Ester” e “Giuditta” di Felice Fiore, rappresentati nel palazzo comunale. Dalle estese monografie dei sette ed ottocentisti, tributari (con i pittori, come il cap. De Candia) alle “scuole napoletane”, rileverò notizie notevoli e curiosità. Capotorti a sette anni soleva accompagnare con il suo violino ogni viatico, annunciato dalle campane, e molto giovane nell'esame d'ammissione al Collegio musicale rilevò un errore di battuta del pianista accompagnatore. Murat nel 1811 gli assegnò la direzione dei quattro Collegi musicali di Napoli. Fu maestro d'armonia a Mercadante (ed altri) e di canto a celebri artiste ed autore, oltre che d'altre forme profane e religiose, di 11 opere serie, semiserie, comiche, drammatiche, tra cui spicca il “Marco Curzio” (commentata da Peruzzi), rappresentato al S. Carlo in onore di Napoleone I e motivo d'una trionfale fiaccolata del pubblico dal teatro all'abitazione di lui. Da Capotorti Roppo dichiara che discendano i seguenti quattro maggiori ottocentisti. Interessanti i ruoli patriottici e civili di Sergio Panunzio e Giuseppe De Candia, Capitani della Guardia Nazionale, sindaco di Molfetta l'uno (1866-70), vicesindaco l'altro. Entrambi in successione diressero la Banda locale. Panunzio (1812-86), “come Francesco Peruzzi, avvocato e musicista” negli stessi Università e Conservatorio di Napoli, per la costituzione di Ferdinando II e per la sua morte compose un Inno, una Marcia funebre per bande, una Messa funebre per orchestra grande. Un “carattere donizettiano” individua Peruzzi in due suoi Oratori ed un “carattere popolare” in tutta la sua musica, “melodica” ed “orecchiabile”. “Musica popolare” anche quella di De Candia (1836-1904) nei “così detti Passidoppi, cioè pezzi sinfonici marciabili” in “gran voga”. Autore di musica religiosa, tra cui due Marce funebri per banda, questi si segnalò soprattutto per “una stupenda Sinfonia”. Per opportunità d'organizzazione del discorso premetto al Valente Giuseppe Peruzzi (1837-1918). Di suo padre l'avvocato musico enumera un lunga serie di composizioni di vario genere, in prevalenza religioso, tra cui un breve “Stabat Mater” sull'esempio dei diletti Rossini e Verdi, alcuni Oratori, tra cui “«Le tre ore di Gesù agonizzante», l'Opera superiore” (commentata da lui e) “che [l'] eleva […] dal dilettantismo al posto di vero Maestro compositore”. Da segnalare una “Solenne messa da requiem”, diretta da lui in cattedrale per le “plebiscitarie commosse onoranze funebri” a cinque molfettesi “giovani gentiluomini studenti universitari”, periti nell'eruzione del Vesuvio del 1872. Vincenzo Valente (1830-1908), “Sempre tipo bohèmien, perchè nato artista, trascorse i primi anni di giovinezza in vita avventurosa e varia e, recatosi in Napoli, studiò composizione musicale”. Non conseguì nella sua musica l'eccellenza, di cui era capace, per la sua tempra scapigliata (“trasandato, poco curante della propria dignità, spesso volgare, ma acutamente sarcastico, in fondo poi anima candida”), che lo portò nel 1860 tra i garibaldini come “Guardia a cavallo”. Peruzzi lo definisce “creatore della Marcia funebre bandistica tipica paesana, avendo interpretato e soddisfatto con questo genere di musica il sentimento e il gusto del pubblico molfettese”. Le sue marce funebri “si ripercuotono nell'anima del nostro popolo”. Il pubblico molfettese: colgo l'occasione per spostare l'attenzione dai creatori ai fruitori di musica a Molfetta. Superfluo richiamare la prepasquale passione popolare (e non solo) per le marce funebri. Anche la “lirica” nelle due feste patronali d'un tempo attrasse con altri i ceti popolari. Indimenticabili un podio stabile d'orchestra nella Villa comunale ed ormai desuete “orchestre” di legno elevate nel “Borgo”. A tal culto pubblico aggiungo le private memorie: la mia di fanciullo dei dischi di mio padre artigiano con le più note romanze dei più celebri melodrammi; d'Ada De Judicibus, che in una delle più belle elegie (“G Verdi” in “Versi” del 1983) evoca e narra la propria educazione musicale, iniziata dal nonno e confermata dal padre; e di Peruzzi su “cospicua” società. Peruzzi padre formò “pregiate pianiste”; “una cantoria”, attrazione d'un folto pubblico, “di voci bianche (signorine) presso le Figlie della Carità ai Zoccolanti”; “molte allieve di canto fra le signorine delle più cospicue famiglie”. “Durante il 1800 […] si erano costituiti dei cenacoli e vivai artistici musicali-intellettuali presso diverse famiglie signorili” - Roppo le nomina: Fraggiacomo, Capelluti, Poli, Panunzio, Lezza, Peruzzi ed altre” – “a mò della Camerata Fiorentina di Casa Bardi […] riunendo nelle rispettive case i migliori elementi cittadini e svolgendo a turno un ciclo di tornate musicali […] oltre alla elevazione intellettuale e al godimento spirituale, conferivano lustro alla Città, da farla nomare «l'Atene delle Puglie».. Un particolare significativo: a Napoli l'ecclesiastico violoncellista Paolo Rotondo formò un “cenacolo d'arte e di alta intellettualità” (musici, pittori, scultori), che ne arricchirono la casa con doni d'arte, passati poi alla “Galleria Rotondo” (Museo S.Martino).